giovedì 28 luglio 2016

Preliminare di un immobile in costruzione. Si può recedere se i lavori non vengono terminati entro i tre anni


Preliminare di un immobile in 

costruzione. Si può recedere se i 

lavori non vengono terminati 

entro i tre anni



Immobile in costruzione, si può recedere se i lavori non vengono terminati in 

tempo



La sentenza del Tribunale siciliano giunge a tale conclusione dopo aver precisato che l'art. 40, secondo comma della legge n. 47/1985 contenente “Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive” stabilisce la nullità degli atti tra vivi privi degli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria, ma presuppone che tali negozi siano illeciti sin dall'origine poiché aventi ad oggetto beni già esistenti alla data di stipula dell'atto.Il Tribunale di Agrigento ha stabilito che, se i lavori per la realizzazione di due unità abitative non si concludono entro tre anni dal rilascio della concessione edilizia, diventano abusive anche le opere già realizzate ma tale situazione non comporta anche la nullità del contratto preliminare di cui gli immobili erano oggetto.
E' evidente, quindi, che tale disposizione non può trovare applicazione, neanche ricorrendo all'interpretazione analogica, al caso di specie ove oggetto delcontratto preliminare è un bene futuro che il promittente venditore si impegna a costruire.
Dunque, muovendo da tale considerazione, è necessario analizzare i fatti di causa per comprendere le conclusioni alle quali giunge la sentenza.
Il fatto.
Tizio stipula un contratto preliminare di compravendita di cosa futura avente ad oggetto un immobile da costruire con Caio, il quale si impegna ad edificare due appartamenti su un terreno di sua proprietà ricevendo come prezzo la somma di trecento milioni di lire.
Le parti stabiliscono che in caso di mancato rilascio della concessione edilizia da parte del Comune entro cinque anni dalla stipula del preliminare, Tizio avrebbe potuto recedere dal contratto ed ottenere la restituzione della somma versata.
Caio ottiene la concessione edilizia nel giugno del 2005, ma a causa di una serie di vicende parallele quali contenziosi con i confinanti, i lavori non vengono ultimati entro il termine di tre anni previsto dall'art. 15 del Dpr 380/2001 e di conseguenza il titolo edilizio era divenuto inefficace con conseguente abusività delle opere già realizzate.
(Sul tema della nullità del contratto preliminare privo di concessione edilizia si segnala:
Il preliminare di compravendita di un immobile da costruire è nullo se manca la concessione edilizia)
In virtù di tali circostanze Tizio, con procedimento sommario, ha chiesto che sia dichiarata:
  • la nullità del contratto preliminare per illiceità della causa ai sensidell'art. 1343 c.c.;
  • nonché la legittimità dell'esercizio del diritto di recesso previsto dal contratto con condanna di Caio ( promittente venditore) alla restituzione dell'importo percepito (trecento milioni di lire) al momento della stipula del contratto preliminare.
La prima questione che ha esaminato il Tribunale è proprio quella della decadenza del titolo abilitativo rilasciato dal Comune dopo la stipula del contratto preliminare avente ad oggetto la realizzazione di due unità abitative.
A tal riguardo il provvedimento evidenzia che non avendo la Regione Sicilia provveduto a recepire il Dpr 380 del 2001 rubricato “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, al caso in questione si applica quanto previsto dalla pregressa legge n. 10/1977 che, analogamente a quanto previsto dal citato Testo Unico, stabilisce che per la regolarità della concessione edilizia è necessario che i lavori siano iniziati entro il termine di un anno dal rilascio del titolo abilitativo mentre devono concludersi entro tre anni, e tale ultimo termine può essere prorogato, con provvedimento motivato, al verificarsi di fatti estranei alla volontà del concessionario.
Nel caso di specie, quindi, i lavori iniziati il 25 agosto 2005 avrebbero dovuto concludersi entro il 25 agosto 2008, ma così non è stato perché i lavori non si sono conclusi entro tale ultimo termine comportando, di conseguenza, la decadenza dell'originaria concessione e rendendo abusive anche le opere già eseguite.
Dunque dal mancato rispetto dei termini previsti dalla legge per il compimento dei lavori autorizzati dalla concessione edilizia scaturisce, con chiarezza cristallina, solo l'abusività delle opere già realizzate, ma che sorte viene riservata al contratto preliminare avente ad oggetto la compravendita di un immobile da realizzare stipulato prima del rilascio della concessione edilizia?
In merito alla richiesta formulata dal promissario acquirente rivolta a dichiarare la nullità di tale contratto per illiceità della causa ex art. 1343 c.c., il Tribunale di Agrigento ritiene che la decadenza della concessione edilizia, per mancato rispetto del termine triennale previsto dalla legge entro il quale i lavori concessi devono concludersi, non comporta anche la nullità del contratto.
A tal proposito è stato evidenziato che la nullità è una sanzione prevista dall'ordinamento che sanziona un vizio genetico ed originario del contratto “vizio che, nel caso di illiceità della causa del contratto, si identifica nella finalizzazione dell' operazione negoziale nel suo complesso, già al momento del suo perfezionamento, ad un risultato contrario all'ordinamento giuridico”.
Nel caso di specie, invece, le parti hanno finito un preliminare avente ad oggetto il successivo trasferimento di unità abitative ancora da realizzarsi e tale contratto perseguiva una funzione in sé consentita e meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, mentre la decadenza del titolo concessorio è un fatto, come appena detto, successivo alla conclusione del contratto.
Per tale ragione il Giudice ha respinto la domanda diretta a dichiarare la nullità del contratto preliminare, puntualizzando, inoltre, che nel caso di specie non può trovare applicazione neanche l'ipotesi prevista dal secondo comma dell'art. 40 della legge n. 47/1985 che sancisce la nullità degli atti tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili che non fanno riferimento alla concessione edilizia o alla concessione in sanatoria.
In conclusione, quindi, il Tribunale ha accertato la legittimità del recesso dal preliminare da parte del promissario acquirente obbligando Caio alla restituirgli la somma versata al momento della conclusione del preliminare, mentre ha respinto la domanda volta ad dichiarare la nullità del preliminare.
Questa la conclusione quindi: il contratto preliminare di compravendita di un bene immobile da realizzarsi non è nullo se successivamente la concessione edilizia decade per mancata conclusione dei lavori assentiti entro il termine di tre anni previsto dalla legge (art. 15 Dpr 380/2001).
 Scarica Tribunale di Agrigento, del 29 febbraio 2016 n. 354


Fonte http://www.condominioweb.com/recesso-preliminare-di-un-immobile-in-costruzione.12893#ixzz4FirV8qdl
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Stop all'usucapione del lastrico solare se il regolamento condominiale dice che è di tutti


Stop all'usucapione del 

lastrico solare se il regolamento 

condominiale dice che è di tutti


Usucapione delle parti comuni e regolamento condominiale






Così si è pronunciato il
 Tribunale di Roma nella sentenza n. 17613 del 3 settembre 2015, ove è stato precisato che senza la prova di acquisto, il singolo proprietario che se n'è impossessato deve liberare la terrazza: la titolarità non esclusiva dell'area si presume in base all'attitudine a soddisfare esigenze collettive.In tema condominiale, va sottolineato che, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall'articolo 1117 c.c., non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova.
Questi i fatti di causa. Un condominio, con citazione, conveniva in giudizio una società al fine di ottenere l'accertamento del proprio diritto sul lastrico solare. In particolare, eccepiva che il proprio edificio era adiacente ad un altro stabile e che la propria copertura era costituita da un lastrico solare su cui si affacciava l'immobile di proprietà della società convenuta; inoltre, evidenziava che, in occasione dell'insorgenza di alcune infiltrazioni provenienti dal lastrico solare in questione, aveva scoperto che la convenuta aveva creato un accesso allo stesso mai autorizzato.
Per tale ragione chiedeva al tribunale il rilascio dell'anzidetto lastrico solare ai sensi dell'art. 948 c.c. (azione di rivendicazione). Costituendosi in giudizio, la società convenuta, contestava in toto le domande dell'attore; in particolare, oltre al difetto di legittimazione attiva del Condominio, chiedeva in via riconvenzionale l'accertamento di intervenuta usucapione del terrazzo in capo al precedente proprietario e di conseguenza in capo all'odierna società convenuta a seguito dell'acquisto unitamente all'appartamento.
Pertanto, veniva chiamata in causa anche la precedente proprietaria a sostegno della testi di parte convenuta.
Nel corso del procedimento, espletata l'attività istruttoria, il Tribunale, preliminarmente, respingeva le eccezioni svolte dalle parti convenute. Nel merito, in particolare sul punto fondamentale della domanda, (azione di rivendicazione della proprietà del lastrico solare), il giudice adito, conformemente a quanto illustrato dalla giurisprudenza di legittimità, ha precisato che in tema di condominio, costituisce valutazione in fatto, l'accertamento da parte del giudice di merito relativo al fatto che un determinato bene, per la sua struttura e conformazione e per la funzione cui è destinato, rientri tra quelli condominiali oppure sia di proprietà esclusiva di uno dei condomini;
di talché, per rivendicare la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l'attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini.
Diversamente, per chi ne afferma la proprietà esclusiva, dovrà provare, con un titolo di acquisto, elementi tali da escludere la comunione. (In tal senso Cass. Civile n. 11195/2010 e n. 8152/2011).
Premesso quanto esposto, contrariamente a quanto sostenuto dai convenuti (privi di qualunque prova), nella fattispecie in esame, deve ritenersi applicabile la presunzione di cui all'articolo 1117 c.c. con conseguente onere in capo a chi reclama la proprietà di dover dimostrare il proprio diritto dominicale (cd. Presunzione erg omnes).
Difatti, dalle risultanze istruttorie (documentazione fotografica) è emerso in maniera del tutto pacifica che il lastrico solare fungeva da copertura dell'edificio del condominio e, dunque, che era strumentalmente e funzionalmente collegato alle proprietà esclusive dei condomini (destinazione al servizio comune); ed ancora, a parere del giudice, qualora il regolamento includa il lastrico solare tra le parti del condominio di proprietà comune e in assenza di deliberazioni circa lo scorporo e la vendita dello stesso, esso appartiene in comunione ai proprietari dei singoli appartamenti del condominio e non può essere usucapito da nessuno.
Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, il Giudice romano, ha legittimamente accolto la domanda di parte attrice (condominio); di conseguenza, la convenuta è stata condannata all'immediato rilascio dello stesso.
 Scarica Tribunale di Roma n. 17613 del 3 settembre 2015


Fonte http://www.condominioweb.com/usucapione-delle-parti-comuni-e-regolamento-condominiale.12887#ixzz4FipweU9C
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Non serve l'unanimità ma basta la maggioranza qualificata per dare il via alle tabelle millesimali


Non serve l'unanimità ma basta 

la maggioranza qualificata per 

dare il via alle tabelle millesimali


Approvazione a maggioranza delle tabelle millesimali





La deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino, che è nella legge prevista, ma solo come parametro di quantificazione dell'obbligo, determinato in base ad una valutazione tecnica; l'atto di approvazione della tabella fa capo a una documentazione ricognitiva di tale realtà, donde il difetto di note negoziali.In tema di condominio, la tabella millesimale serve solo a esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore tra i diritti dei vari condomini, senza incidere in alcun modo su tali diritti.
Pertanto, l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura negoziale e ne consegue che il medesimo non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.
Così si è pronunciata la Corte di Appello di Taranto nella sentenza n. 27 del 21 gennaio 2016, ove è stato precisato che l'approvazione delle tabelle millesimali non ha natura negoziale né stabilisce diritti in capo ai condomini ma serve solo a esprimere in precisi termini aritmetici un preesistente rapporto di valore tra i proprietari esclusivi.
Questi i fatti di causa. Un condomino, con citazione chiedeva la revocazione della sentenza di secondo grado, per errore di fatto (art. 395 n. 4 c.p.c.), con cui era stata rigettata l'impugnazione da lui proposta della delibera condominiale; invero, l'attore con tale azione, ha impugnato la sentenza della stessa Corte che, seguendo l'errore di fatto dell'assemblea condominiale e del giudice di primo grado, aveva confermato l'approvazione di tabelle millesimali, errate, contro cui si era opposto.
Costituendosi in giudizio, il Condominio convenuto contestava e resisteva alle difese di parte ricorrente.
Orbene, preliminarmente giova ricordare che la revocazione della sentenza è uno strumento che la legge mette a disposizione delle parti per impugnare sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado nei casi indicati dall'articolo 395 del codice di procedura civile.
A tal proposito, nella vicenda in esame, la Corte di appello ha avuto modo di precisare che l'errore di fatto previsto dall'art. 395, n. 4, c.p.c., idoneo a costituire uno dei tassativi motivi di revocazione della sentenza emessa, deve consistere nell'affermazione o supposizione dell'esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti essere, invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata in base al tenore degli atti o dei documenti di causa.
Tale errore deve essere non solo manifesto ed obiettivo, ma anche decisivo nel senso che deve esistere un necessario nesso di causalità tra l'erronea supposizione e la decisione resa e non deve cadere su un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata. (Cassazione civile, sez. lav., 03/09/2015, n.17513 e Corte appello Milano, n. 3147 del 16/12/2009).
Premesso quanto innanzi esposto, quanto all'errore di fatto sulle tabelle millesimali, la Corte tarantina ha evidenziato come, la giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. Unite n. 18477 del 09/08/2010), ha ormai fatto chiarezza su un punto controverso: l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura negoziale; ne consegue che il medesimo non deve essere approvato con il consenso unanime dei condomini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.
Ebbene, nella precedente pronuncia della Corte di appello, vi era errore di fatto perché tale decisione aveva affermato che la maggioranza dell'art. 1136 c.c. era stata raggiunta nell'assemblea, circostanza tuttavia smentita dai valori millesimali; sicché, l'errore di fatto, essenziale e decisivo, per la equa distribuzione delle spese, costituisce vizio revocatorio ex articolo 395, numero 4 c.p.c.
A tal proposito, si osserva che l'approvazione a maggioranza delle tabelle millesimali non comporta inconvenienti di rilievo nei confronti dei condomini, in quanto, nel caso di errori nella valutazione delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, coloro i quali si sentono danneggiati possono chiedere, senza limiti di tempo, la revisione ex art. 69 disp. att. c.c.
Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, la domanda del condomino è stata accolta con la revoca del capo di sentenza con cui era stata rigettata l'opposizione alle tabelle millesimali.
 Scarica Corte di Appello di Taranto n. 27 del 21 gennaio 2016


Fonte http://www.condominioweb.com/approvazione-a-maggioranza-delle-tabelle-millesimali.12886#ixzz4Fio9B7B3
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lunedì 25 luglio 2016

Distacco dall'impianto centralizzato. Nulla la delibera se si verifica uno squilibrio termico.


Distacco dall'impianto centralizzato.

Nulla la delibera se si verifica uno

squilibrio termico.


Ecco quando la delibera sul distacco dall'impianto centralizzato è da 

considerarsi nulla





"In tema di condominio, sono nulle le delibere condominiali che autorizzano tout court il distacco di alcuni condomini dall'impianto centralizzato di riscaldamento e che limitano a una quota di contribuzione fissa le spese di conservazione dell'impianto a carico degli autonomi, se tali azioni sono state pregiudizievoli per l'impianto comune e hanno aggravato la posizione dei condomini che continuano a fruire del sistema condominiale".Stop alla delibera che fissa il contributo al 10 per cento degli oneri, mentre il distacco dall'impianto comune crea a chi resta collegato uno squilibro termico.
Questo è il principio di diritto espresso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 8906 del 04 maggio 2016 in merito al distacco dei condomini dall'impianto centralizzato.
I fatti di causa. Gli attori Tizio e Caio convenivano in giudizio i condomini Sempronio e Mevio ed il condominio affinché fosse accertato e dichiarato che nella fattispecie, a seguito del distacco delle unità immobiliari dei convenuti dall'impianto di riscaldamento centralizzato, il sistema di produzione di calore presentava un calo di efficienza significativo, con aggravio di spesa per i condomini non distaccatisi;aggravio che poteva essere compensato ponendo a carico dei condomini distaccatisi una quota di contribuzione molto più alta di quella sancita.
In particolare veniva contestato il fatto che i convenuti, in maniera illegittima, avevano operato il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento centralizzato in violazione degli artt. 1117 e 1120 c.c. della legge n. 10 del 1991. Di talché, si chiedeva al giudice adito la nullità delle delibere impugnate. Costituendosi in giudizio, i convenuti contestavano in toto le pretese degli attori.
Gli orientamenti della giurisprudenza ante riforma. La rinuncia unilaterale al riscaldamento condominiale da parte del singolo condomino, mediante il distacco del proprio impianto dalle diramazioni dell'impianto centralizzato, è da ritenersi pienamente legittima, purché l'interessato dimostri che dal suo operato non derivino né aggravi di spese per coloro che continuano a fruire dell'impianto, né, tanto meno, squilibri termici pregiudizievoli della regolare erogazione del servizio (In tal senso Cass. n. 5974/2004 Cass. n. 6923/2001 Cass. n. 1775/98; Cass. n. 1597/95; Cass.n. 4653/90).
Il distacco è dunque da ritenersi giuridicamente possibile: il condomino può, pertanto, legittimamente, rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto termico comune senza necessità di autorizzazione od approvazione degli altri condomini, e, fermo il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell'impianto, è tenuto a partecipare a quelle di gestione, se e nei limiti in cui il suo distacco non si risolva in un aumento degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condomini.
La delibera assembleare che, pur in presenza di tali condizioni, respinga la richiesta di autorizzazione al distacco è nulla per violazione del diritto individuale del condomino sulla cosa comune (Cass. Sentenza n. 7518/2006).
Il distacco dall'impianto centralizzato e il nuovo art. 1118 c.c. La legge n. 220/2012 (la riforma del condominio) è intervenuta sull'argomento del distacco dall'impianto di riscaldamento condominiale modificando l'art. 1118 c.c. In particolare, il quarto comma della norma attualmente in vigore prevede che:
"Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma".
Nella sostanza, si è inserito nel codice civile l'elaborazione giurisprudenziale degli anni precedenti. Secondo una sentenza resa dal Tribunale di Monza (del 26 agosto 2014 n. 2347), la portata del precetto in esame non può essere estesa fino al punto da ricollegare a priori qualunque anomalia del funzionamento a un avvenuto distacco.
Si tratta di un principio molto importante perché pone a carico di chi lamenta problemi (ergo, quasi sempre il condominio) l'onere di provare chiaramente che il distacco ha causato problemi notevoli (squilibri nel funzionamento).
Il ragionamento del Tribunale di Roma. Nel caso di specie era stato stabilito non solo il distacco di alcuni condomini ma anche che essi dovessero limitarsi a pagare una quota del 10 per cento per le spese di gestione dell'impianto. Il tutto senza una perizia che potesse valutare eventuali pregiudizi in danno di coloro che avevano deciso di rimanere allacciati al vecchio impianto.
Sull'argomento in esame, il giudice romano ha avuto modo di precisare che si reputa ammissibile il distacco quando: la rinuncia è prevista in un regolamento di condominio di tipo contrattuale; quando è autorizzato dai condomini all'unanimità; quando l'interessato dà prova che dal distacco derivi una effettiva e proporzionale riduzione delle spese d'esercizio e non si verifichi più alcuno squilibrio per l'impianto centralizzato (Cass. 6294/1984).
In particolare, i condomini che intendono distaccarsi dall'impianto centralizzato possono farlo a condizione che il distacco non danneggi il funzionamento dell'impianto centralizzato; che se il distacco provoca aumenti delle spese per gli altri condomini, la percentuale d'aumento viene da loro sostenuta. (Cass. n. 11152/97; Cass. n. 1775/98).
Premesso ciò, nella presente fattispecie, a seguito di CTU, il giudice ha riscontrato che con il distacco dei convenuti, c'è stato uno squilibrio termico in pregiudizio del regolare funzionamento dell'impianto con un significativo calo di efficienza e aggravio di spesa per i condomini rimasti allacciati.
Sicché, le delibere che hanno autorizzato il distacco tout court dei convenuti devono dichiararsi nulle, avendo assentito un intervento pregiudizievole per l'impianto comune e che ha aggravato, senza il consenso unanime dei condomini, la posizione di alcuni di essi (ossia dei condomini che continuano a fruire del sistema condominiale ai quali sono stati accollati, di fatto, i maggiori oneri derivanti dal calo di efficienza e del maggior consumo di combustibile per compensare le dispersioni di calore).
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, il Tribunale di Roma ha dichiarato la nullità delle delibere nella parte in cui è stato autorizzato il distacco dal sistema centralizzato condominiale da parte dei condomini convenuti senza porre a loro carico una quota di contribuzione (come individuata nella c.t.u. in atti) adeguata a compensare i maggiori oneri derivanti a carico degli altri condomini non distaccatisi.


Fonte http://www.condominioweb.com/quando-la-delibera-sul-distacco-dallimpianto-centralizzato-e-da-considerarsi.12885#ixzz4FRR5jdyv
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I canoni di locazione ad uso commerciale non percepiti non vanno dichiarati


I canoni di locazione ad uso commerciale non percepiti non vanno dichiarati


Risoluzione del contratto di locazione e dichiarazione canoni non percepiti










La giustizia tributaria affronta nuovamente il tema della tassazione dei canoniderivanti dal contratto di locazione ad uso commerciale stabilendo che se i canoni di locazione non sono stati percepiti, nel momento in cui sia intervenuto un procedimento di convalida di sfratto oppure una qualsiasi causa di risoluzione del contratto prima della scadenza del termine di presentazione della dichiarazione di redditi, il locatore non è tenuto a dichiararli.
Una contribuente ha proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale contestando l'avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle Entrate che ha accertati, per l'anno finanziario 2009, un reddito imponibile superiore a ventimila euro desunto dal contratto di locazione concluso nel 2008.
La ricorrente sostiene che per l'anno 2009 ha dichiarato esclusivamente le somme versate dal conduttore a titolo di deposito cauzionale, precisando che il conduttore non ha mai versato alcun canone di locazione tanto da indurla a intraprendere un procedimento di sfratto per morosità.
L'Agenzia delle Entrate, invece, ha contestato che il contribuente avrebbe comunque dovuto dichiarare i canoni di locazione, dato che oggetto del contratto era un immobile ad uso commerciale, e che di conseguenza bisognava dichiarare i canoni percepiti dal locatore fino al momento in cui non fosse intervenuta la risoluzione del contratto.
Secondo l'Agenzia delle Entrate, quindi, la mancata percezione del canone da parte della locatrice non esentava quest'ultima dall'obbligo di dichiarare il reddito risultante dal contratto di locazione stipulato nel 2008.
(In tema di canone di locazione non versato ed assenza dell'obbligo di dichiarare tale reddito si segnala: Inquilino moroso? Non paghi le tasse per il canone d'affitto non riscosso)
La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Frosinone con la sentenza in commento ha evidenziato che la ricorrente in data 23 marzo 2010 ha presentato al Tribunale di Velletri un'intimazione di sfratto per morosità del conduttore e che, successivamente, lo stesso Tribunale ha emesso, a maggio dello stesso anno, ordinanza di convalida di sfratto intimando al conduttore moroso il rilascio dell'immobile.
In virtù di tale provvedimento di sfratto la ricorrente, quindi, ritiene di dover dichiarare esclusivamente le somme effettivamente incassate considerato che il provvedimento dell'autorità giudiziaria di convalida dello sfratto è anteriore rispetto alla scadenza della presentazione della dichiarazione dei redditi.
Il provvedimento adottato dalla commissione tributaria provinciale laziale ha stabilito, quindi, aderendo alla tesi della ricorrente ha stabilito che il canone di locazione di un immobile ad uso commerciale, anche se previsto contrattualmente, non deve essere dichiarato dal locatore se non percepito e se il contratto si è risolto prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi.
(In tema di benefici fiscali per il locatore nei contratti di locazione stipulati con studenti universitaria si segnala il presente articolo: I contratti conclusi con studenti universitari)
Tale decisione, fra l'altro, condivide pienamente l'orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità che già da tempo precisato che “… In base all' art. 35, D.P.R. n. 597 del 1973 (ora art. 35 del D.P.R. n. 917 del 1986), si presume che il reddito imponibile degli immobili locati sia quello risultante dal contratto di locazione, ma è consentito al contribuente fornire la prova che i canoni non sono stati in concreto percepiti e quindi non sono soggetti a tassazione …” (Cass. civ. Sez. V, 07-05-2003, n. 6911)
Secondo i giudici di legittimità, inoltre, tale interpretazione trova fondamento:
nell'art. 53 della Costituzione secondo cui il carico fiscale deve essere ragguagliato in relazione alla effettiva "capacità contributiva", cioè tenendo conto della effettiva ricchezza a disposizione del contribuente,
- nonché nello "statuto dei diritti del contribuente", approvato con L. 27 luglio 2000, n. 212 , laddove ha sancito il principio di buona fede, che impone alla Amministrazione di far riferimento il più possibile a dati di ricchezza reali.
Alla luce di tali considerazioni, condividendo pienamente il principio stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, la Commissione Tributaria provinciale ha accolto il ricorso della contribuente (locatrice) che legittimamente non aveva indicato i canoni di locazione dell'immobile adibito ad uso commerciale, mai percepiti, nella dichiarazione dei redditi poiché il procedimento di convalida di sfratto del conduttore moroso si era concluso prima del termine previsto per tale adempimento fiscale.
 Commissione tributaria provinciale di Frosinone, sez. IV, 10.6.2015, n. 513


Fonte http://www.condominioweb.com/i-canoni-di-locazione-ad-uso-commerciale-non-percepiti-non.12884#ixzz4FROV25Zb
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giovedì 21 luglio 2016

Termoregolazione e contabilizzazione del calore nel condominio. Ecco tutte le novità in arrivo.


Termoregolazione e contabilizzazione

del calore nel condominio. 

Ecco tutte le novità in arrivo.


Ecco le modifiche introdotte alla normativa vigente sul risparmio energetico.





Il decreto, inoltre, tiene conto delle osservazioni avanzate dalla Commissione europea, modificando alcuni aspetti tra i contenuti principali del provvedimento, la rettifica di alcune definizioni, precisazioni sulla modalità di calcolo dell'obiettivo nazionale vincolante di efficienza energetica e di disposizioni finalizzate a rendere più chiare le norme concernenti la misurazione, la fatturazione del consumo energetico e la suddivisione delle spese in condomini ed edifici polifunzionali.In particolare, per i condomìni è l'ennesima rivoluzione in corso d'opera.Il consiglio dei ministri ha approvato il 14 luglio 2016 il decreto legislativo di integrazione al D.lgs. 102/2014 che va a modificare la normativa vigente sul risparmio energetico ma, soprattutto, appare in una versione che tiene conto del parere espresso dalla commissione Industria del Senato.
Difatti, l'installazione dei contabilizzatori di calore sui termosifoni (dove ci sono impianti centralizzati) è un obbligo il cui termine è il 31 dicembre di quest'anno ma al quale in moltissimi casi è già stato dato adempimento.
La nuova disciplina. Gli aspetti importanti riguardanoil nuovo comma 5 dell'articolo 9 delD.lgs. 102/2014 suddiviso in lettere dalla a) alla d). Le prime tre (a,b,c) riguardano gli interventi impiantistici in materia di contabilizzazione e termoregolazione in riferimento al riscaldamento, al raffreddamento ed all'acqua calda sanitaria; la lettera d), invece, riguarda gli aspetti di calcolo e della deroga alla norma generale.
Le modifiche rilevanti. Tra gliaspetti del D.lgs. 102/2014,messi in discussione dal nuovo decreto integrativo, ci sono le modifiche all'art. 9. In particolare, al comma 5let. a) viene stabilito che per favorire il contenimento dei consumi energetici attraverso la contabilizzazione dei consumi di ciascuna unità immobiliare e la suddivisione delle spese in base ai consumi effettivi delle medesime, è obbligatoria entro il 31 dicembre 2016, l'installazione, a cure degli esercenti l'attività di misura, di un contatore di fornitura in corrispondenza dello scambiatore di calore di collegamento alla rete o del punto di fornitura dell'edificio o del condominio.
Le lettere b) e c) prevedono l'obbligo per il condominio e gli edifici polifunzionali di installare sotto-contatori per individuare l'effettivo consumo di ciascuna unità immobiliare.
Per meglio dire, viene precisato che il compito di installare i «sotto-contatori» spetta al singolo proprietario.Su questo aspetto viene introdotto un concetto nuovo: oltre ai casi di «impossibilità tecnica» di installazione viene introdotto anche il caso di «inefficienza in termini di costi e sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali», purché queste condizioni siano illustrate in una specifica relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato.Secondo la norma, il criterio da adottare per stabilire l'inefficienza è quello di seguire le indicazioni della Uni En 15459.


Fonte http://www.condominioweb.com/contabilizzazione-calore-condominio.12877#ixzz4F45KCUBH
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Cedolare secca sui canoni di locazione anche se il conduttore è una società


Cedolare secca sui canoni di 

locazione anche se il conduttore 

è una società


Cedolare secca valida anche se il conduttore è una società






Cedolare secca sui canoni di locazione anche se il conduttore è una società
La Commissione tributaria provinciale di Milano ha stabilito che l'amministrazione fiscale non può chiedere al contribuente (locatore e proprietario), per la tassazione dei canoni derivanti da un contratto di locazione per i quali ha optato per la cedolare secca, il versamento dell'imposta di registro perché il conduttore è una società.
In pratica l'elemento che rileva per l'applicazione della cedolare secca è il requisito previsto dalla legge secondo cui il locatore, proprietario dell'immobile o titolare di un diritto di godimento, deve essere una persona fisica che non esercita attività imprenditoriale.
In merito alla cosiddetta cedolare secca, imposta applicabile ai canoni di locazione, è bene precisare che la stessa è disciplinata dall'art.3 del Decreto legislativo n. 23/2011 che così dispone
“…il canone di locazione relativo ai contratti aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e le relative pertinenze locate congiuntamente all'abitazione, può essere assoggettato, in base alla decisione del locatore, ad un'imposta, operata nella forma della cedolare secca, sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle relative addizionali, nonché delle imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione; la cedolare secca sostituisce anche le imposte di registro e di bollo sulla risoluzione e sulle proroghe del contratto di locazione…”.
Muovendo da tale presupposto la sentenza ha stabilito che se il locatore è una persona fisica può optare per la cedolare secca per la tassazione dei canoni di locazione, e non ha alcuna rilevanza il fatto che il conduttore sia una società.
Il fatto.
La proprietaria di un immobile concesso in locazione, dopo aver ricevuto un avviso di liquidazione da parte dell'Agenzia delle Entrate per l'omesso versamento dell'imposta di registro sul contratto di locazione, impugna tale avviso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano rilevando che il mancato versamento dell'imposta di registro era addebitabile al fatto di aver optato per il regime della cedolare secca.
A sostegno di tale assunto la ricorrente ha depositato copia della dichiarazione dei redditi per l'anno oggetto di verifica dalla quale si evince l'esercizio dell'opzione della cedolare secca, nonché copia di richiesta di esercizio di autotutela con la quale faceva presente alla direzione provinciale dell'Agenzia delle Entrate di aver optato per tale regime e che pertanto non era obbligata a versare l'imposta di registro.
(Per una dettagliata ricostruzione dei criteri per l'applicazione della cedolare secca vedasi: Quando conviene la cedolare secca sugli affitti)
L'Agenzia delle Entrate riportandosi ad una propria circolare n. 26/2011 ha precisato che, nel contratto di locazione per il quale la ricorrente è locatrice il conduttore risulta essere la società alfa, e pertanto la prima non ha diritto di optare per il regime facoltativo d'imposizione (cedolare secca) che, ribadisce, è riservata solo alle persone fisiche che non agiscano nell'esercizio dell'attività di impresa.
La ricorrente (proprietaria dell'immobile e locatrice nel contratto di locazione oggetto di tassazione), a sostengo delle sue ragioni ha puntualizzato, invece, che nel caso di specie nel contratto di locazione:
Il locatore è una persona fisica che non agisce in regime d'impresa o di libera professione;
Che l'oggetto del contratto di locazione è un'unità immobiliare abitativa destinata ad uso abitativo, ed anche se il conduttore è rappresentato da una società il contratto è ad uso abitativo, dimostrando quindi di essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge che, di fatto, non preclude al locatore la possibilità avvalersi della cedolare secca quando il conduttore è una società.
La Commissione tributaria ha accolto il ricorso della locatrice proprietaria dell'immobile ritenendo che, in quanto persona fisica, titolare del diritto di proprietà sull'immobile concesso in locazione aveva legittimamente optato per il sistema della cedolare secca per la tassazione dei canoni derivanti da tale contratto di locazione.
A tal riguardo, rileva la sentenza, la Direzione provinciale dell'Agenzia delle Entrate non poteva negare, in sede di esercizio di autotutela della contribuente, l'accoglimento delle richieste di quest'ultima sulla base di un semplice documento di prassi adottato dall'ufficio stesso che esprime esclusivamente un parere non vincolante tanto per il contribuente, quanto per gli stessi uffici.
Tale circolare, infatti, ha cercato di interpretare il sesto comma dell'art. 3 del D.lgs.23/2011 contenente “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale” che nega la possibilità di avvalersi della cedolare secca nelle locazioni ad uso abitativo effettuate nell'esercizio di un' attività di impresa, ritenendo che l'accesso a tale imposta da applicare ai canoni di locazione debba essere negata al locatore nel momento in cui il conduttore dell'immobile sia una società.
La Commissione tributaria, invece, ha osservato che non può essere accolta tale eccezione ricorrendo ad un'interpretazione distorta della legge che, come già detto, richiede espressamente che può usufruire della cedolare secca il locatorepersona fisica titolare di un diritto di proprietà o di godimento sull'immobile concesso in locazione, non disponendo alcunché in merito al conduttore.
Commissione Tributaria Provinciale di Milano, XXV° sez.17.4.2015, n. 3529


Fonte http://www.condominioweb.com/cedolare-secca-valida-anche-se-il-conduttore-e-una-societa.12880#ixzz4F41dyFqS
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martedì 19 luglio 2016

Scale. Non sempre possono considerarsi condominiali



Scale. Non sempre possono 

considerarsi condominiali

Scale, ecco quando non si considerano condominiali









Scale. Non sempre possono considerarsi condominiali
Le scale se servono in modo esclusivo all'utilizzo di una parte dell'immobile devono essere considerate private o condominiali?
La Corte di Cassazione, dopo aver precisato che le scale rientrano fra le parti comuni elencate dall'articolo 1117 del codice civile salvo titolo contrario, ha chiarito che l'elencazione contenuta da tale norma non ha natura tassativa ma meramente esemplificativa dei beni oggetti di comunione rilevando che nel caso in cui la destinazione particolare del bene vince l'attribuzione legale, la stessa deve essere considerata alla stregua del titolo contrario.
In pratica, quindi, le scale possono essere escluse dal novero delle parti soggette comunione se, in ragione delle loro caratteristiche strutturali, servono in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile.
Il fatto. Tizio cita in giudizio la Banca sostenendo di essere proprietario di due vani terranei collocati nel Palazzo zeta acquistato dalla convenuta ai quali si accedeva dal civico x, puntualizzando:
- che tali vani dovevano considerarsi parti condominiali del medesimo palazzo,
- che la convenuta aveva realizzato delle opere che impedivano l'accesso ai locali di sua proprietà nonché l'esercizio del suo diritto di passaggio ;
- e di essere proprietario di una piccola palazzina con sottostante garage ubicata alle spalle del palazzo zeta alla quale si accedeva dal civico x . Pertanto Tizio chiedeva di accedere a tale palazzina dal civico x, e di condannare la Banca alla rimozione delle opere che impedivano l'ingresso da tale accesso.
In primo grado il Tribunale ha respinto le richieste dell'attore, il quale ha impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d'appello di Napoli che, riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, ha stabilito il diritto dell'appellante (Tizio) di accedere ai locali terranei dal civico di corso x, mentre per l'accesso alla palazzina con sottostante garage di proprietà dell'appellante, posta sul retro del complesso immobiliare acquistato dalla Banca, la sentenza di secondo grado ha accertato l'esistenza di una servitù di passaggio a vantaggio dell'appellante che non poteva considerarsi estinta per non uso.
La Banca ricorre in Cassazione e con il primo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi sanciti dall'art.1117 del codice civile “per avere la corte territoriale ritenuta la esistenza di un Condominio con riferimento al complesso monumentale del Palazzo zeta rispetto ai due vani terranei, non trattandosi di costruzione coeva”, mentre con ricorso incidentale la Banca ha dedotto la violazione e la falsa applicazione degli articoli 1117, n. 1 e 1102, comma 1, c.c. per avere la corte di merito escluso dalla proprietà comune le scale che consentivano l'accesso ai locali terranei di proprietà del resistente (Tizio).
La sentenza della Corte di Cassazione. In merito alla natura privata e non condominiale delle scale la Cassazione ha escluso la natura condominiale delle scale che consentono l'accesso ai locali terranei di proprietà del resistente (Tizio), ritenendo infondata la censura mossa dalla Banca alla sentenza di secondo grado.(In tema di scale e presunzione di condominialità vedasi ex multis:Cass. civ. Sez. II, 04-03-2015, n. 4372).
Secondo gli Ermellini, quindi, se è vero che le scale rientrano tra le parti comunielencate dall'art. 1117 del codice civile, in quanto consentono normalmente l'accesso alle singole proprietà esclusive, è anche vero che l'elencazione contenuta dalla norma appena citata non è tassativa ma meramente esemplificativa e che i beni elencati da tale norme si considerano di proprietà comune salvo titolo contrario.
Infatti, precisa la Cassazione per stabilire se le scale abbiano o meno natura condominiale la sentenza di secondo grado ha validamente accertato (tramite ctu) che la particolare configurazione dei locali terranei ai quali si accede mediante le scale ne esclude la loro condominialità.
Pertanto, puntualizzano i giudici della seconda sezione civile della Suprema Corte, visto che “le obiettive caratteristiche strutturali, per cui dette scale servono in modo esclusivo all'uso ed al godimento di una parte dell'immobile, ne fanno venir meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l'attribuzione legale, alla stregua del titolo contrario”.
In pratica, quindi, se le scale per le loro caratteristiche strutturali servono all'uso ed al godimento di una parte dell'immobile (nel caso di specie locali terranei) la loro particolare configurazione tecnica, correttamente accertata dal giudice di merito, ne fa venir meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria poiché la particolare destinazione del bene vince l'attribuzione legale alla stessa maniera del titolo contrario.
 Corte di Cassazione, del 19.4.2016 - n. 7704


Fonte http://www.condominioweb.com/scale-condominialita.12871#ixzz4ErHm3D3l
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