martedì 30 giugno 2015

Sottobalconi da ristrutturare, chi paga le spese

Sottobalconi da ristrutturare, chi paga le spese?

Chi deve sostenere le spese per gli interventi di ristrutturazione del così detto sottobalcone?
Il sottobalcone è quella parte del manufatto che, solitamente, serve da copertura per il balcone inferiore.
Quando si parla di sottobalcone si fa ai balconi aggettanti, poiché nel caso di balconi incassati si suole parlare di solaio interpiano.
Chiarito questo aspetto è utile comprendere chi debba essere considerato proprietario del sottobalcone.
È noto che secondo la Corte di Cassazione i balconi aggettanti “non sono necessari per l'esistenza o per l'uso, e non sono neppure destinati all'uso o al servizio dell'intero edificio: è evidente, cioè, che non sussiste una funzione comune dei balconi, i quali normalmente sono destinati al servizio soltanto dei piani o delle porzioni di piano, cui accedono” (Cass. 21 gennaio 2000 n. 637).
Gli ermellini, quindi, ritengono che tali manufatti debbano essere considerati di proprietà esclusiva. Nel corso degli anni hanno specificato questa loro presa di posizione precisando che devono, invece, essere considerati di proprietà comune le parti decorative della parte frontale e di quella inferiore del balcone aggettante in quanto incidenti sul decoro architettonico dell'edificio (cfr. tra le tante Cass. 14576/04 e da ultimo Cass. 10209/2015).
Si badi: le sentenze non parlano di proprietà comune della parte frontale e di quella inferiore ma degli elementi decorativi ivi presenti. Insomma se i rivestimenti incidono sul decoro è evidente che le parti strutturali restano di proprietà del titolare del balcone, chiaramente laddove tale distinzione sua materialmente effettuabile.
Rispetto al sottobalcone, la giurisprudenza, quand'è stata chiamata a pronunciarsi specificamente su di esso, ha affermato che le spese relative ad essi relative “debbono essere poste a carico di tutti i condomini poiché gli stessi vanno considerati una parte condominiale in quanto visibili dall'esterno dell'edificio e, quindi, con funzione decorativa ed estetica per l'intero fabbricato” (Trib. Novara 29 aprile 2010).
La pronuncia pare non tenere in piena considerazione l'elaborazione giurisprudenziale fin qui esposta, sicché la sua generica considerazione non può non essere soggetta a critica. D'altra parte per un sottobalcone dipinto di bianco, anche se considerato rilevante ai fini del decoro, la sola spesa per la ritinteggiatura potrà essere posta in capo a tutti i condòmini, ma quelle necessarie per eventuali risanamenti strutturali graveranno sul loro esclusivo proprietario.
Nel caso di ristrutturazione dell'edificio e contestuale sistemazione dei balconi, quindi, la spesa per le parti decorative dovrà essere suddivisa tra tutti i partecipanti al condominio in ragione dei millesimi di proprietà, trattandosi di un costo dovuto per la conservazione delle parti comuni ai sensi dell'art. 1123 c.c.
Chiaramente i condòmini possono assumere decisioni differenti in merito alla ripartizione delle spese se concorre il consenso di tutti quanti loro.


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mercoledì 24 giugno 2015

I lavori edili in condominio. Lacune costruttive e opere non realizzate a regola d'arte: difformità, vizi dell'opera e difetti.

I lavori edili in condominio. Lacune costruttive e opere non realizzate a regola d'arte: difformità, vizi dell'opera e difetti.

Sempre d'attualità le problematiche riguardanti i difetti costruttivi, siano essi quelli originari del fabbricato ovvero quelli riguardanti successive ristrutturazioni dell'immobile in condominio.
Le norme del codice civile poste a salvaguardia di siffatto genere di vizi, sono quelle contenute nel Libro IV, capo VII, dell'appalto, artt. 1667 e segg.
In particolare è stabilito come, l'appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell'opera. La garanzia non è dovuta se il committente (condominio) ha accettato l'opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché, in questo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall'appaltatore.
Il committente (condominio) deve, a pena di decadenza, denunziare all'appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l'appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati.
L'azione contro l'appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell'opera. Il committente (condominio) convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunziati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna (art. 1667 c.c.).
Ed ancora, Il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell'appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell'appaltatore. Se per le difformità o i vizi dell'opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1668 c.c.)
Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore è responsabile nei confronti del committente (condominio) e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il diritto del committente (condominio) si prescrive in un anno dalla denunzia (art. 1669 c.c.).
Tralasciando l'ipotesi della rovina dell'edificio, le fattispecie richiamate delineano essenzialmente tre tipologie di lacune: la difformità, i vizi e i difetti dell'immobile.
La giurisprudenza ha indicato le differenze esistenti tra le diverse fattispecie di danno, chiarendo come: per difformità debba intendersi la mancanza di corrispondenza tra quanto previsto in contratto (o nel progetto) e quanto effettivamente realizzato; il vizio invece viene identificato nell'imperizia nell'esecuzione dell'opera, vale a dire la realizzazione dell'opera senza il rispetto delle metodologie costruttive, in altri termini, l'assenza della cd. regola dell'arte; l'ipotesi del difetto, quella più gravosa, attiene sempre a vizi costruttivi che, tuttavia, incidono negativamente in maniera profonda sugli elementi essenziali di struttura e di funzionalità dell'opera, influendo sulla sua solidità, efficienza e durata (Cass. civ., 29/04/2008, n. 10857; Cass. civ., 31/03/2006, n. 7634; Cass. civ., 01/03/2001, n. 3002; Cass. civ., 27/12/1995, n. 13106).
E' stato ultimamente chiarito come: "i gravi difetti dell'opera, oggetto della garanzia di cui all'art. 1669 c.c., ricorrono anche se non si producono fenomeni tali da influire sulla stabilità della costruzione e consistono in qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando le sue parti essenziali, ne compromettono la conservazione, limitandone sensibilmente il godimento o diminuendone in maniera rilevante il valore" (Cass. civ., 09/12/2013, n. 27433).
Pertanto, il grave difetto dell'opera può attenere anche ad elementi accessori o, comunque, considerati secondari (ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l'impianto di riscaldamento, la canna fumaria, l'intonaco esterno), fermo restando, tuttavia, che il difetto debba gravare in modo importante sul godimento dell'immobile stesso (Cass. civ., 04/10/2011, n. 20307; Cass. civ., 06/02/2009, n. 3040).
Esistono, tuttavia, dei limiti temporali entro i quali denunciare le eventuali difformità, vizi o difetti dell'opera.
Per quanto concerne le difformità e i vizi questi devono essere comunicati all'appaltatore entro 60 giorni dalla loro scoperta, termine di decadenza, comunemente inteso quale spazio temporale entro il quale esercitare un diritto, sotto pena, in mancanza, della sua perdita.
L'azione contro l'appaltatore invece si prescrive (estinzione del diritto) in due anni dalla consegna dell'opera.
Per quanto concerne i gravi vizi, questi sono eccepibili nei dieci anni dal compimento dell'opera e il diritto si prescrive in un anno dalla denuncia.
Ora vi è da chiedersi quando effettivamente la difformità, il vizio e il difetto possono ritenersi effettivamente "scoperti".
Ebbene, la "scoperta" e, pertanto, la decorrenza del termine di decadenza si ha nel momento in cui il committente/condomino "consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall'imperfetta esecuzione dell'opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti" (Cass. civ., 09/12/2013, n. 27433).
Ecco quindi che è necessaria l'effettiva conoscenza che può essere acquisita in ogni modo, senza tuttavia la necessità di un riscontro tecnico, quando l'evidenza del vizio è già sufficientemente emersa. Con specifico riferimento al condominio/committente i lavori, è stato ritenuto che la conoscenza fosse stata acquisita dal momento in cui i vizi dell'opera erano stati evidenziati in alcuni verbali di assemblee condominiali (Cfr.: Cass. civ., 22/11/2013, n. 26233).
Quando si è al cospetto di vizi occulti o non conoscibili, perché non apparenti all'esterno, il termine di prescrizione dell'azione di garanzia, ai sensi dell'art. 1667, terzo comma, c.c., decorre dalla scoperta dei vizi, che è da ritenersi acquisita dal giorno in cui il committente abbia avuto conoscenza degli stessi, si pensi all'imperfetta esecuzione delle fondamenta, "il termine di prescrizione è stato fatto decorrere dal depositato nella procedura di accertamento tecnico preventivo della relazione del consulente di ufficio, essendo in tal modo i committenti venuti a conoscenza dell'esistenza dei vizi" (Cass. civ., 19/08/2009, n. 18402).
Viceversa, per paralizzare l'azione giudiziaria, è onere dell'appaltatore dimostrare che il committente/condomino sia venuto a conoscenza in data anteriore delle eventuali difformità, vizi o difetti dell'opera.
Allo stesso tempo, anche il direttore dei lavori potrebbe non essere ritenuto esente da responsabilità.
Ciò può avvenire quando il danno subito dal committente/condominio sia conseguenza dei concorrenti inadempimenti dell'appaltatore e del direttore dei lavori i quali, quindi, potranno essere chiamati in solido a rispondere degli eventuali danni.
La responsabilità del direttore dei lavori deriva, in particolare, dall'obbligo di vigilanza incombente sullo stesso, dal dovere di impartire le opportune disposizioni sull'andamento delle opere, nonché dal potere di controllo sul corretto operato dell'appaltatore ed, in difetto, dal dovere di riferire in merito al committente/condominio.
Tanto è vero che: "sotto il profilo della natura "di mezzi" e non "di risultato" dell'obbligazione posta a carico del direttore dei lavori, rileva il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale - pur essendo vero che, in tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, questi presta un'opera professionale implicante un'obbligazione di mezzi e non di risultato - il direttore dei lavori è tuttavia chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, sicché egli deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente si aspetta di conseguire. Ne deriva che il comportamento del direttore dei lavori deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della "diligentia quam in concreto", sicché rientrano nelle obbligazioni su di lui gravanti l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia delle modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi. Ne segue che non può ritenersi esente da responsabilità il direttore dei lavori che, nell'ambito di siffatto ruolo tecnico-professionale, ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente; in ciò concretandosi quell'alta sorveglianza delle opere implicante il regolare ed assiduo controllo (attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa) della realizzazione dell'opera nelle sue varie fasi e stati di avanzamento" (Ex multis: Cass. civ., 13/04/2015, n. 7373).
Nessun dubbio, pertanto, in merito alla responsabilità solidale dell'appaltatore e del direttore dei lavori, ma anche di eventuali altre figure che abbiano collaborato alla realizzazione dell'opera, si pensi ad esempio al progettista.
Ed invero, "con riguardo allo specifico profilo ex art. 1669 c.c., in tale responsabilità - di natura extracontrattuale - possono incorrere, in concorso con l'appaltatore, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro attività nella realizzazione dell'opera, abbiano contribuito per colpa professionale alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei gravi vizi costruttivi; soggetti tra i quali va annoverato il direttore dei lavori e progettista" (Cass. civ., 23/07/2013, n. 17874).
STUDIO LEGALE AVV. PAOLO ACCOTI
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La responsabilità del notaio nelle compravendite immobiliari con particolare riguardo alle attività accessorie

La responsabilità del notaio nelle compravendite immobiliari con particolare riguardo alle attività accessorie



La disamina della giurisprudenza ci farà comprendere quali oneri pone la legge a carico di tale professionista e le conseguenze che scaturiscono dall'esercizio superficiale di un'attività professionale complessa e di rilevanza pubblica.
In tema di responsabilità civile del notaio si registrano una serie di recenti pronunce attraverso le quali la giurisprudenza sintetizza quelle che è la responsabilità di tale professionista con particolare riguardo alle compravendite immobiliari. Per comprendere l'orientamento della giurisprudenza è necessario analizzare alcune delle più recenti pronunce che specificano in particolar modo quelli che sono gli oneri accessori gravanti su tale professionista (valutazione dell'atto di provenienza del bene compravenduto, obbligo di effettuare le visure catastali, obbligo di informare il cliente delle conseguenze fiscali che possono derivare dalla vendita dell'immobile).
Responsabilità del notaio per mancato esame del titolo di provenienza del bene.
Una recente pronuncia di merito ha rilevato che il notaio, nell'ambito di una compravendita immobiliare non può limitarsi esclusivamente a richiamare i dati identificativi risultanti dalle ultime schede catastali, ma è comunque tenuto ad esaminare anche il titolo di provenienza del bene al fine di accertare la proprietà degli stessi in capo ai venditori. (Corte di appello di Milano, sez. I civ., 7 gennaio 2014 n. 16) attraverso tale pronuncia la corte di merito ha puntualizzato l'obbligo del notaio di valutare quanto previsto dall'atto di provenienza di un immobile. Infatti attraverso tale pronuncia la corte di merito ha osservato che molto spesso a fronte del contenuto descrittivo del titolo di provenienza di un immobile e dei confini in esso indicati, tale titolo è in grado di fornire dati più attendibili rispetto a quelli ricavabili dalle schede catastali.
A questa conclusione la pronuncia di merito citata approda osservando che nella stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare l'attività professionale che il notaio svolge non può limitarsi, esclusivamente, ad accertare la volontà delle parti ed a predisporre l'atto di vendita ma deve estendersi anche allo svolgimento di tutte quelle attività accessorie necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti.
Infatti la sentenza della Corte d'appello di Milano si conclude con la condanna del notaio, e del geometra che aveva compiuto degli errori nel frazionamento dell'immobile, per aver stipulato un contratto ove veniva disposta la vendita di un bene che, in realtà, non apparteneva agli alienanti.
Nel caso di specie la Corte di appello conferma la sentenza che già in primo grado aveva condannato il professionista che si era limitato esclusivamente a riportare i dati tratti dalle schede catastali, senza valutare il titolo di provenienza dell'immobile oggetto di compravendita.
Nell'ambito di tale pronuncia la Corte d'appello ha giustamente evidenziato che “le risultanze catastali preordinate a fini essenzialmente fiscali, hanno un valore meramente indiziario e da esse non può trarsi la prova decisiva della consistenza degli immobili e della loro appartenenza”; secondo tale sentenza fra l'altro questo principio assume particolare importanza soprattutto quando le risultanze catastali, così come nel caso di specie giunto all'esame della Corte di appello milanese, sono ampliamente contraddette dal titolo di provenienza dell'immobile.


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Durata della locazione per uno studio professionale

Durata della locazione per uno studio professionale

Sono un giovane ingegnere ed ho intenzione di lavorare come libero professionista. Sto cercando un piccolo studiolo e per quello che ho farebbe al caso mio il proprietario ha detto che sigliamo un contratto a norma di legge di durata di sei anni con proroga della medesima durata.
Lui dice che è l'unica possibilità di durata prevista dalla legge.
Siccome sono all'inizio e non vorrei impegnarmi per così tanto tempo, mi domando: non è possibile sottoscrivere un accordo di durata inferiore, una sorta di contratto ad uso transitorio?
Partiamo dall'individuazione della normativa di riferimento: artt. 27 e ss. della legge n. 392/78 specificamente dedicati alla locazione di immobili urbani destinati ad usi differenti da quello di abitazione.
L'art. 27, primo e secondo comma, della legge citata specificano che la durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad a varie attività commerciali, artigianali e produttive in genere. Ad esse, lo specifica chiaramente il secondo comma devono essere assimilate le locazioni riguardanti immobili da adibire all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo.
A meno che l'attività di libero professionista non sia saltuaria, dunque, la durata del contratto dev'essere minimo di sei anni. Ciò tanto se il professionista stipuli un contratto di locazione, quanto di sublocazione (es. affitto stanza in studio professionale).
Diverso il caso del professionista che prende in locazione (o sublocazione) un'unità immobiliare (o un vano) in una città diversa da quella ove svolge la propria attività, per ragioni contingenti legate ad uno specifico incarico (art. 27, quarto comma, l. n. 392/78). In tal caso è possibile applicare le norme generali dettate dal codice civile che non prevedono una durata minima (cfr. art. 1573 c.c.).
Certo è che l'inizio all'attività non vi sono certezze assolute sulla sua riuscita e quindi sulla sua continuità nel tempo. Vero, ma ciò non conta ai fini della legge che ritiene sufficiente l'esercizio abituale e professionale.
Se le parti, nonostante tutto, dovessero prevedere una durata inferiore?
Il terzo comma del medesimo articolo specifica che “se è convenuta una durata inferiore o non è convenuta alcuna durata, la locazione si intende pattuita per la durata rispettivamente prevista nei commi precedenti”.
Ed allora? Che cosa può fare un giovane professionista per evitare di rendere eccessivamente gravoso il contratto in termini di durata?
È la stessa legge che, sia pur non specificamente rispetto a questa ipotesi, prevede una possibilità a vantaggio del conduttore di recedere dal vincolo contrattuale senza dover specificare il motivo con un preavviso di sei mesi. Del genere: comunicazione con raccomandata a.r. inviata a giugno con l'indicazione dell'esercizio del diritto di recesso e rilascio dell'immobile nel successivo mese di dicembre. Per esercitare tale modalità di recesso è necessaria una specifica indicazione nel contratto di locazione (art. 27, sesto comma, c.c.).
Resta sempre possibile, invece, il medesimo recesso, con le medesime tempistiche, qualora ricorrano gravi motivi. Tali sono fatti non previsti e non voluti dal conduttore, quali ad esempio, la chiusura dell'attività per mancanza di lavoro (art. 27, sesto comma, c.c.).


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Possibile realizzare un secondo bagno in una casa in condominio?

Possibile realizzare un secondo bagno in una casa in condominio?

Ho da poco acquistato una casa in condominio e ho deciso di ristrutturarla prima di andarci a vivere: tra le varie opere s'era pensato di creare un secondo bagno.
Posso farlo? Ho necessità di un'autorizzazione?
La realizzazione di un secondo bagno nella propria abitazione ubicata in condominio rappresenta una di quelle opere su parti di proprietà individuale realizzata ai sensi dell'art. 1122 c.c.
Tale norma specifica che ciascun condomino nella propria unità immobiliare – cui bisogna equiparare le parti normalmente destinate all'uso comune, che gli siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale (si pensi al lastrico solare) – può eseguire qualunque intervento purché non rechi danno alle parti comuni ovvero determini pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.
Tali interventi, chiosa la norma devono esserepreventivamente comunicati all'amministratoreche poi ne fornisce notizia all'assemblea.
Scopo dell'avviso è quello di consentire al condominio di prendere cognizione della natura delle opere del singolo condomino per predisporre gli (eventuali) opportuni interventi.
Si badi: l'assemblea non può mai vietare l'esecuzione delle opere (salvo diversa disposizione contenuta in un regolamento di natura contrattuale), ma potrebbe decidere per l'intimazione in tal senso con eventuale autorizzazione all'amministratore di agire in giudizio con un'azione per denuncia di nuova opera o di danno temuto.
Il caso della realizzazione del secondo bagno potrebbe essere annoverabile tra gli interventi che recano danno alle parti comuni?
La risposta non è univoca: dipende dall'impatto di tale realizzazione sugli impianti comuni, in particolare sulla colonna di scarico che serve gli appartamenti.
In una sentenza avente ad oggetto l'allaccio ad un'utenza comune la Corte di Cassazione ha avuto modo di specificare che tale condotta “non costituisce di per sé una indebita modifica della stessa, perché una rete di servizi - sia fognaria, elettrica, idrica o di altro tipo - è per sua natura suscettibile di accogliere nuove utenze; è pertanto onere del condominio, che ne voglia negare l'autorizzazione, dimostrare che, nel caso particolare, l'allaccio di una sola nuova utenza incide nella funzionalità dell'impianto, non potendo opporsi che il divieto all'allaccio sia finalizzato ad impedire un mutamento di destinazione della unità immobiliare” (Cass. 5 giugno 2015 n. 11445).
Insomma il condomino può agire senza avere preoccupazioni di sorta se i tecnici che lo affiancano nella esecuzione delle opere possono assicurargli che l'allaccio del nuovo bagno ai condotti condominiali non rechi danno a quella parte comune (leggasi impianti fognario), rappresentando tale opera una semplice modalità d'uso delle cose comuni ai sensi dell'art. 1102 c.c.
Come si diceva in generale, spetterà al condominio dimostrare l'opposto per ottenere (in via cautelare) la sospensione dell'esecuzione delle opere ed quindi (in via definitiva) il divieto di realizzazione o la loro eliminazione se s'è interventi a opera eseguita.


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giovedì 18 giugno 2015

Solidarietà tra i morosi e tra quelli in regola con i pagamenti

Solidarietà tra i morosi e tra quelli in regola con i pagamenti

La legge n. 220/12, sulla riforma del condominio, ha voluto mediare sul principio di parziarietà delle obbligazioni condominiali, prevedendo un beneficium escussionis a favore dei condòmini in regola con i pagamenti, che potranno essere
chiamati a corrispondere le quote dei morosi solo a seguito di insolvenza di questi ultimi; in realtà, a prescindere dalle difficoltà interpretative al riguardo della eventuale solidarietà tra i morosi e della solidarietà tra quelli in regola con i pagamenti per il “residuo”, la nuova normativa contempla un modello ben definito, ovvero il caso espresso ove l'assemblea si sia pronunciata approvando la spesa, ma nulla dispone, la nuova normativa, per le ipotesi in cui l'assemblea non l'abbia avallata, ma sia rimasta inerte o abbia deciso di non pagare il creditore.

La Cassazione, con la sentenza n. 1674 del 29/01/2015 ha riconosciuto che, in caso responsabilità per danni, ai sensi dell'art. 2055, se il danno è cagionato da più persone, queste rispondono in solido; annoverandosi, la responsabilità del custode, tra le ipotesi di responsabilità aquiliana i condomini, che hanno concorso a cagionare il danno, saranno responsabili in solido. Invero la recente pronuncia, espressamente, non si pone in conflitto con quanto stabilito dalle SS.UU. con la sentenza n. 9148/08 atteso che, nella suddetta fattispecie, si verteva in ambito di responsabilità di natura contrattuale. Nel dettaglio, si trattava di obbligazione contratta dall'amministratore per conto dei condomini.

Il principio di cui all'art. 1294 c.c., che contempla la responsabilità solidale nelle obbligazioniove la legge non disponga altrimenti, non si applica alle obbligazioni contrattuali nel condominio ove l'obbligazione è divisibile e, pertanto, vige il principio della parziarietà.

Nelle obbligazioni extracontrattuali, al contrario, l'art. 2055 c.c. opera un rafforzamento del creditoal fine di evitare che il danneggiato sia costretto ad agire pro quota nei confronti di tutti i condebitori; la riferibilità dell'obbligazione non è in capo al condominio ma direttamente ai condomini responsabili del danno.

In altri termini, il sistema delineato dalla Cassaziome si fonda sulla differenza intrinseca tra il contraente, che ha la possibilità di cautelarsi in caso di insolvenza e, comunque, si assume un rischio in virtù di un'iniziativa economica ed il danneggiato da fatto illecito, che si trova a subire una condotta altrui senza alcun suo intervento causale volontario.
Non può sfuggire, peraltro, che la decisione delle Sezioni Unite poneva il fondamento delle proprie considerazioni proprio sulla realità dell'obbligazione condominiale (obbligazione propter rem) e tale realità è ancora più evidente nell'obbligo di custodia, ove si risponde oggettivamente in ragione della titolarità del bene.
Il principio introdotto dalle SS.UU., comunque, inizia a subire un erosione proprio in quanto abbia applicato una forzatura all'art. 1294 c.c. (principio generale di solidarietà) erosione che si prevede continui in un futuro prossimo.


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Crisi, morosità e soluzioni: lo scioglimento del condominio

Crisi, morosità e soluzioni: lo scioglimento del condominio


Ciao Amici di Condominioweb! Vi spiego la situazione del mio condominio e spero possiate darmi un'indicazione sull'idea che abbiamo avuto.
Abito in un edificio che si compone di due scale, A e B, esattamente nella scala A. Sebbene ognuno paghi nel rispetto del così detto condominio parziale, abbiamo gli stessi fornitori. Stessa impresa di pulizia delle scale, medesimo ascensorista e poi chiaramente stesso erogatore di energia elettrica e gas.


Il problema sta nel fatto che molti condòmini della scala B non pagano. L'amministratore è solerte nell'intraprendere le azioni di recupero del credito, ma si sa com'è lenta la giustizia. Per carità la crisi morde tutti e non è facile arrivare a fine mese, però la situazione che s'è creta non ci piace affatto. Insomma per farla breve siamo incappati due volte nella sospensione dell'acqua e una volta dell'energia elettrica.


L'impresa di pulizia scale la paghiamo parzialmente con sua buona pazienza, ma adesso si sta muovendo per recuperare il credito e abbiamo timore che l'azione crei danno anche a noi.


Vogliamo risolvere questo problema ed allora abbiamo pensato di uscire da questa situazione sciogliendo il condominio. È possibile? La morosità è un motivo valido per farlo?
Partiamo da quest'ultimo quesito: per lo scioglimento del condominio, i condòmini non devono addurre alcuna specifica motivazione. In buona sostanza la scelta è libera e non dev'essere riportata a verbale. La morosità e la crisi economica sono giustificazioni legittime che non devono essere menzionate nel verbale con cui è assunta la decisione o nel ricorso giudiziale, quando è possibile presentarlo: ma se anche si decidesse di farlo ciò non inficerebbe la legittimità della deliberazione o del ricorso giudiziale.
Detto ciò è sicuramente possibile addivenire allo scioglimento del condominio nei casi e nei modo indicati dall'art. 61 disp. att. c.c. che recita:
Qualora un edificio o un gruppo di edifici appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi, il condominio può essere sciolto e i comproprietari di ciascuna parte possono costituirsi in condominio separato.
Lo scioglimento è deliberato dall'assemblea con la maggioranza prescritta dal secondo comma dell'art. 1136 del codice, o e disposto dall'autorità giudiziaria su domanda di almeno un terzo dei comproprietari di quella parte dell'edificio della quale si chiede la separazione.
Tale modalità di scioglimento trova applicazione anche quando restano in comune alcuni beni, servizi ed impianti (cfr. art. 62 disp. att. c.c.), mentre sono necessarie maggioranza più ampie (quelle di cui all'art. 1136, quinto comma, c.c., ed è precluso il ricorso all'Autorità Giudiziaria se per lo scioglimento è necessario deliberare interventi sulle parti comuni.
Lo scioglimento, dunque, per i casi di crisi e morosità sarebbe effettivamente conveniente se non restassero parti comuni o, comunque, se le parti che dovessero restare tali non comportassero costi di gestione elevati, in modo tale che le morosità possano essere gestite senza timore di sospensione di servizi o di azioni legali dei fornitori.


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Obbligazione solidale o parziaria? La responsabilità dei condomini nei confronti dei terzi

Obbligazione solidale o parziaria? La responsabilità dei condomini nei confronti dei terzi


I Condomini sono ritenuti obbligati unitariamente e solidalmente tutte le volte in cui l'onere riguardi il pagamento del corrispettivo di prestazioni
Una delle questioni maggiormente dibattute nel diritto condominale è quella relativa alla sussistenza, o meno, del vincolo di solidarietà tra i condomininella ripartizione della spesa di una obbligazione di natura contrattuale, assunta dal condominio nei confronti di terzi.
La Sentenza del Tribunale di Padova - pubblicata in data 16.01.2015 -offre un valido contributo chiarificatore, in coerenza con l'orientamento attualmente prevalente in giurisprudenza.
Il fatto. Un Condominio patavino riceve la notifica di un decreto ingiuntivo da parte della società che gli somministra il gas per il funzionamento dell'impianto di riscaldamento, a causa del mancato pagamento dell'ultima fattura emessa. (L'amministratore può spifferare al creditore del condominio il nominativo dei condomini morosi?)
Il Condominio si oppone alla pretesa monitoria: lamenta di non essere legittimato passivamente a rispondere dell'obbligazione dedotta dall'ente somministrante; afferma che la stessa sia soggettivamente riconducibile ai condòmini morosi, pro quota consumo. Estende il giudizio a quest'ultimi, chiedendone la condanna anche al pagamento di specifici e ulteriori oneri condominiali (qualificatasi, nel giudizio, come domanda riconvenzionale).
La pretesa economica spiegata dal creditore procedente non è stata quindi contestata nel merito e neppure sul quantum debeatur.
Il punto nodale della causa viene incentrato nella soluzione della questione relativa al regime diresponsabilità delle obbligazioni assunte dal condominio nei confronti dei terzi fornitori. Esaminiamo più nel merito la decisione.
La Sentenza. Il rapporto di somministrazione in questione è sorto su mandato all'amministratore conferito dell'Assemblea dei condomini, ai sensi dell'articolo 1137 comma 1 c.c. (“Le delibere prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini”).
Le spese relativa al consumo sono state ripartite, nella fattispecie, conformemente alla previsione di cui all'articolo 1123 c.c.. (“Le spese necessarie per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazioni dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condòmini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione”).
Il disposto spiega effetti solamente sotto il profilo interno al condominio stesso: ossia tra i compartecipi
In altri termini, tutti i condòmini rispondono solidalmente delle obbligazioni contratte dal condominio per il funzionamento degli impianti comuni. Il patto con cui i condomini si ripartiscono la spesa secondo i millesimi o in base ad altri criteri assume rilevanza solo interna e non può essere opposto all'appaltatore.
Rispetto alle obbligazioni assunte dal condominio nei confronti dei terzi tutti i condomini, dunque, devono ritenersi impegnati unitariamente e solidalmente, a prescindere dalla misura della quota interna di ripartizione.
Sotto altro profilo, il creditore sarà in grado di procedere all'esecuzione individualmente nei confronti dei singoli condòmini, secondo la quota di ciascuno, una volta ottenuto il titolo nei confronti del condominio contraente ( Cass. 20.2.2013, n. 4238 ).
Alla luce delle osservazioni di cui sopra, pertanto, l'opposizione del Condominio è stata respinta ed il decreto ingiuntivo confermato in ogni sua parte.
Rispetto alla domanda formulata dal Condominio nei confronti dei morosi (per altre causali di pagamento). Sono state dichiarate inammissibili (anche) le domande proposte dal condominio nei confronti dei singoli condomini, in ordine al pagamento delle spese condominiali ulteriormente maturate.
La riconvenzionale – riporta la Sentenza - per essere ammissibile, deve dipendere "dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione".
Nella fattispecie tale coincidenza giuridica non è stata rilevata, atteso che il titolo dedotto in giudizio in sede monitoria è il pagamento della fornitura di gas in forza di contratto di intercorso tra le parti, mentre la domanda riconvenzionale formulata dal condominio è relativa ad un inadempimento di singoli condomini rispetto ad altre spese maturate.
Tra le diverse pretese non è stata rilevata alcuna comunanza né sotto il profilo soggettivo delle parti, né sotto il profilo oggettivo della causa petendi, da cui l'inammissibilità.
In definita, l'opposizione o meglio l'azione esercitata dal condominio opponente è stata respinta del tutto, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto e aggravio di spese a suo carico.
a Tribunale Padova, Sezione 2 civile Sentenza 16 gennaio 2015, n. 150


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Escavazione nel sottosuolo: possibile solo con il consenso degli altri condomini

Escavazione nel sottosuolo: possibile solo con il consenso degli altri condomini

È questo il principio di diritto che si ricava dalla sentenza della Corte di Cassazione n 11667 del 5 giugno 2015.
Ad essere leso - secondo gli Ermellini - è il diritto di comproprietà, in quanto l'escavazione per iniziativa del singolo priverebbe gli altri condomini dell'uso e del godimento, «anche soltanto potenziale» di una parte comune (il suolo ed il sottosuolo, appunto). La linea di confine tra la proprietà del condomino e quella comune sarebbe rappresentata dalla linea del pavimento dell'unità immobiliare posta al piano più basso dell'edificio.
Il fatto. Il Condominio contesta al proprietario del locale al piano più basso dell'edificio di aver eseguito dei lavori di ampliamento che hanno comportato l'abbassamento del piano di calpestio. In questo modo il sottosuolo, di proprietà condominiale, sarebbe stato annesso in maniera abusiva alla proprietà esclusiva. Il proprietario si difende sostenendo, tra l'altro, che le opere di ristrutturazione non hanno comportato l'abbassamento del piano di calpestio dell'immobile né, tantomeno, un inglobamento del sottosuolo comune all'interno della proprietà privata. I lavori sarebbero stati determinati dalla necessità di consolidare e rafforzare il piano di calpestio. Il proprietario sostiene altresì che la presunzione di comproprietà del sottosuolo ex art. 1117 c.c. va esclusa nel caso di specie, atteso che la parte di suolo in questione poteva comunque essere utilizzata solo ad uso e al godimento di quel particolare immobile e non anche dai condomini dei piani superiori. Inoltre, la C.T.U. espletata non aveva stabilito con certezza se i lavori avevano effettivamente interessato il sottosuolo di proprietà condominiale.
In primo grado, il Tribunale rigettava la domanda del Condominio, ma la decisione veniva ribaltata dalla Corte d'Appello, che condannava il proprietario del locale a rialzare il piano di calpestio del locale portandolo alla quota originaria. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza d'appello.
Il punto di vista della Cassazione. I Giudici di legittimità ricordano che, in mancanza di un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad un condomino, lo spazio sottostante al suolo su cui sorge il fabbricato, deve intendersi di proprietà comune, indipendentemente dalla sua destinazione, ai sensi degli artt. 840 e 1117 c.c. Pertanto, il singolo condominio non può, senza il consenso degli altri, procedere ad escavazioni inglobando parte del sottosuolo alla proprietà esclusiva in modo da ricavare nuovi locali o ingrandire quelli preesistenti. Tale attività, infatti, comporterebbe, illegittimamente, l'assoggettamento del bene comune a vantaggio esclusivo del singolo condomino.
La presunzione di condominialità del suolo. Il suolo su cui sorge il fabbricato è di proprietà comune ex art. 1117 c.c. Esso comprende "l'area dove sono infisse le fondazioni e la superficie sulla quale poggia il pavimento del pianterreno, non anche quest'ultimo. Ne consegue che i condomini sono comproprietari non della superficie a livello di campagna, bensì dell'area di terreno sita in profondità - sottostante, cioè, la superficie alla base del fabbricato - sulla quale posano le fondamenta dell'immobile".
Il sottosuolo inizia dove termina il pavimento del piano più basso a prescindere che questo emerga, in tutto o in parte, dal piano di campagna circostante, o che si trovi più in profondità, risultando completamente interrato. Il singolo proprietario del locale a piano terra, salvo non dimostri di avere acquistato in base a valido titolo porzioni di esso, "non può assoggettarlo a proprio uso esclusivo impedendone il pari uso agli altri condomini senza il consenso di costoro". Esiste, quindi, una vera e propria presunzione di condominialità del sottosuolo che, peraltro, può essere superata da prova contraria costituita da un valido titolo di acquisto.


Sottosuolo, bene in condominio o parte di proprietà esclusiva?
di Alessandro Gallucci
L'art. 1117 del codice civile non menziona espressamente il sottosuolo tra i beni che devono considerarsi (per molti presumersi, la tale temine è utilizzato in modo improprio) di proprietà comune.
Ed allora, il sottosuolo dev'essere considerato bene in proprietà esclusiva o parte comune? E di conseguenza come valutarne le possibili modalità d'uso?
Una sentenza resa dalla Corte di Cassazione il 5 giugno 2015, la n. 11667 ci consente di tornare sull'argomento e valutare quella che, ad oggi, può considerarsi la soluzione unanimemente accolta in dottrina e giurisprudenza.
Funzione dei beni e loro utilizzazione; per arrivare alla soluzione sulla natura del sottosuolo e quindi alle sue possibili modalità d'uso è necessario rispondere ad una domanda: a che cosa serve il sottosuolo?
A dire il vero a questa domanda bisogna rispondere tutte le volte che ci si trova davanti ad una parte di edificio non menzionata dall'art. 1117 c.c.; questa norma, ce lo dicono ormai da anni i giudici e gli studiosi, non contiene un'elencazione tassativa dei beni comuni, ma solamente un elenco esemplificativo di parti e impianti dell'edificio che sono comuni se un titolo (leggasi primo atto d'acquisto o regolamento contrattuale ivi allegato) non disponga diversamente.
E come fare a capire se un bene è comune? Proprio guardando alla sua funzione, ossia a che cosa serve. Se viene utilizzato per meglio godere delle unità immobiliari di proprietà esclusiva o comunque per usi non riconducibili al godimento esclusivo di un solo comproprietario devono essere considerati in condominio (magari anche solo parziale, cfr. art. 1123, terzo comma, c.c.).
Nel caso del sottosuolo, che è la parte del terreno posto sotto il suolo sul quale poggiano le fondamenta dell'edificio, oltre alla evidente connessione strutturale con una parte comune, gioca il richiamo contenuto nell'art. 840 c.c. che battezza di proprietà del titolare del suolo ciò che v'è nello spazio sottostante (chiaramente salvo diversa indicazione).
In effetti, ormai da anni, la Corte di Cassazione è costante nell'affermare che "per il combinato disposto degli artt. 840 e 1117 c.c. lo spazio sottostante ai suolo su cui sorge un edificio in condominio, in mancanza di titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei condomini, deve considerarsi di proprietà comune, indipendentemente dalla sua destinazione; ne consegue che il condomino non può, senza il consenso degli altri, procedere ad escavazioni in profondità del sottosuolo per ricavarne nuovi locali od ingrandire quelli preesistenti, comportando tale attività l'assoggettamento di un bene comune a vantaggio del singolo (Cass. 28-4-2004 n. 8119; Cass. 9-3-2006 n. 5085; Cass. 24-10-2006 n. 22835; Cass. 13-7-2011 n. 15383)" (Cass. 5 giugno 2015 n. 11667).
Se il bene è comune, esso soggiace alle norme che disciplinano l'uso delle cose comune da parte dei singoli condòmini, ossia a quanto stabilito dall'art. 1102 c.c.
In questo contesto, quindi, i giudici di legittimità, nella sentenza in esame, sono arrivati alla stessa conclusione cui sono giunti in passato quando hanno risolto casi simili: rappresenta un uso illegittimo delle sottosuolo condominiale, la condotta di chi escavando per ampliare la propria unità immobiliare chi se ne appropria (Appropriazione di 60 cm di sottosuolo da parte del singolo condomino.) in spregio al pari diritto degli altri condòmini e comunque annettendo una parte comune al suo esclusivo vantaggio senza il consenso (scritto) di tutti gli altri interessati.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, 8 aprile - 5 giugno 2015, n. 11667


Fonte : www.condominioweb.com 

La garanzia per i vizi nella compravendita

La garanzia per i vizi nella compravendita



Il venditore è tenuto a garantire il compratore dai vizi della cosa venduta (art. 1476 n. 3 c.c.).
Che cosa s'intende per vizio della cosa venduta?
In che modo deve agire il compratore per ottenere latutela dei propri diritti e soprattutto che cosa può ottenere?
Le norme di riferimento sono rappresentate dagliartt. 1490-1497 c.c.; cosa diversa rispetto alla garanzia dai vizi è la garanzia per i beni di consumo prevista dal d.lgs n. 206/05.
Quest'ultima si applica a tutti i rapporti di consumo e basta, la prima a tutti i contratti di compravendita.
Cosa diversa dai vizi e dalla mancanza di qualità della cosa, inoltre, è la così detta vendita aliud pro alio.
Quando un bene può dirsi viziato?
Ai sensi dell'art. 1490 c.c.
Il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.
Il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto, se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa.
I bene, quindi, è viziato se non serve all'uso cui è destinato o comunque se i vizi incidono in modo tale da diminuirne apprezzabilmente il valore.
Tizio vende un asciugacapelli a Caio che, però, che non funziona o non funziona perfettamente non gettando fuori aria calda.
Sempronio vende a Mevio un immobile ma lo stesso, dopo pochissimo tempo, inizia a presentare difetti strutturali tali da renderlo invivibile per l'umidità e le muffe sulle pareti.
In questi casi il patto con cui si esclude la garanzia non va effetto se v'è malafede del venditore.
La garanzia non è dovuta se i vizi erano conosciuti dal compratore o, comunque, facilmente conoscibili, salvo in quest'ultimo caso, l'ipotesi di dichiarazione in senso contrario del venditore (cfr. art. 1491 c.c.).
Quali sono i rimedi azionabili dal compratore?
Questo, ai sensi dell'art. 1492 c.c., può domandare:
a) la riduzione del prezzo (ho pagato 100 avrei dovuto pagate 70, quindi ridatemi 30);
b) la risoluzione del contratto (con conseguente restituzione della cosa e del prezzo versato, art. 1493 c.c.).
La scelta fatta con la domanda giudiziale diviene irrevocabile; il perimento della cosa in conseguenza dei vizi comporta la risoluzione del contratto, mentre il perimento per caso fortuito, colpa del compratore o l'alienazione, danno diritto alla riduzione del prezzo.
In ogni caso è fatto salvo il diritto al risarcimento del danno nonché il diritto al risarcimento dei danni provocati dai vizi della cosa (art. 1494 c.c.).
Entro quanto tempo ed a che condizioni il compratore ha diritto d'agire per la garanzia?
Risponde alla domanda l'art. 1495 c.c. a mente del quale:
Il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge.
La denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del vizio o l'ha occultato.
L'azione si prescrive, in ogni caso, in un anno dalla consegna; ma il compratore, che sia convenuto per l'esecuzione del contratto, può sempre far valere la garanzia, purché il vizio della cosa sia stato denunziato entro otto giorni dalla scoperta e prima del decorso dell'anno dalla consegna.
La denunzia dev'essere fatta in modo tale da avere poterne dimostrare con certezza l'avvenimento; insomma meglio una raccomandata a.r.
In ogni caso, ossia la di là della necessità di effettuare la denunzia, l'azione di garanzia si prescrive nel termine di un anno dalla consegna del bene anche se il venditore convenuto in giudizio per l'esecuzione del contratto può farla valere anche dopo purché la denunzia del vizio sia avvenuta entro otto giorni e comunque prima del decorrere dell'anno dalla consegna.
Il che vuol dire: per i vizi manifestatisi successivamente non c'è nulla da fare

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martedì 16 giugno 2015

Il bene rimane comune anche se i condòmini non lo utilizzano.

Il bene rimane comune anche se i condòmini non lo utilizzano.


Com'è noto, i beni elencati dall'art. 1117 c.c. si ritengono di proprietà della collettività se il contrario non emerge dal titolo.
Il principio è riferibile a tutti i beni comuni, ivi compreso il sottotetto, che può essere ritenuto tale, qualora, per le sue caratteristiche strutturali e funzionali, è oggettivamente destinato all'uso collettivo (Cfr.: Cass. 17249/2011).
Ciò risulta ancor più evidente, quando, per le dimensioni delle stesso, è possibile l'utilizzazione come vano autonomo.
La problematica è stata di recente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, che si è occupata dellaquestione relativa ai locali sottotetto, adibiti a cantine, acquistati da un'unica società, la quale, nell'ambito della ristrutturazione degli stessi, aveva inglobato anche il corridoio di accesso ai predetti vani, provocando la reazione del condominio che ne ha chiesto la restituzione.
La società opponeva la circostanza per la quale il corridoio servisse solo alcune unità immobiliari e che i condòmini non avrebbero mai usato l'anzidetto corridoio, mancando pertanto il nesso di strumentalità comune dell'anzidetto bene.
Di contrario avviso la Suprema Corte, la quale, con sentenza n. 12157, dell'11.06.2015, esclusa la proprietà privata del corridoio in difetto di titolo idoneo, asserisce come ciò che ha rilievo per ritenere la condominialità del bene è: “… la destinazione funzionale del bene all'uso di più condòmini proprietari di singole unità sottotetto”.
Né può assumere rilievo la circostanza per cui il bene non sia al servizio delle proprietà di altri condomini ovvero che la generalità degli stessi non utilizza l'anzidetto bene (nella fattispecie concreta il corridoio del sottotetto), considerato che la presunzione di comproprietà, approntata dall'art. 1117 c.c., “si fonda su elementi obiettivi che rilevano l'attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo”.
Questi i principi generali chiaramente applicabili a tutti le parti comuni dell'edificio: il vero discrimine tra proprietà privata e comune, non risiede nell'utilizzo dello stesso, bensì nelle caratteristiche funzionali e organiche del bene, laddove questo potenzialmente sia destinato a servire una pluralità di soggetti, potenziali utilizzatori; in tali casi, il bene si ritiene comune all'intero condominio.
Ferma restando la possibilità di provare il contrario e, pertanto, la proprietà esclusiva, per il tramite di idoneo titolo.
D'altronde afferma la Suprema Corte, nel caso specifico: “il fatto che almeno due condomini potessero avere accesso al corridoio del piano sottotetto implica l'esistenza della condizione necessaria e sufficiente per presumere la proprietà condominiale. E' ben difficile sostenere comunque che un corridoio concepito e costruito per l'accesso a molti distinti vani ripostiglio sia un bene avente propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio, almeno potenziale, rispetto all'edificio condominiale. La pluralità dei soggetti potenzialmente utilizzatori non è infatti discutibile e non sussistono le caratteristiche strutturali atte a far presumere che alla nascita del condominio quel corridoio sia stato riservato a un proprietario esclusivo” (Cass. civ., Sez. II, 11.06.2015, n. 12157).
Altro importante principio espresso dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, è quello per cui, fermo restando che una siffatta azione rientra tra quelle poste a salvaguardia dei beni comuni, per la quale l'amministratore è legittimato ad agire in giudizio autonomamente, anche senza l'autorizzazione assembleare, in ogni caso, a prescindere dall'effettivo utilizzo, o meno, da parte dei singoli condòmini, gli stessi hanno sempre: “un concreto interesse a conservare la titolarità comune su una porzione dell'immobile che in futuro può sempre rilevarsi suscettibile di usi attualmente non prevedibili, come nel caso di posa in opera di tubi, fili, impianti e simili”.
Pertanto, il condominio, al pari del singolo condomino, nell'ipotesi di salvaguardia dei beni comuni, ha sempre la legittimazione attiva a stare in giudizio, vale a dire che, a ragione, può sempre ricorrere all'autorità giudiziaria - anche se concretamente non utilizzata il bene comune - qualora l'azione sia finalizzata alla difesa della condominialità del bene, senza il rischio di incorrere in atti emulativi (ossia di nuocere o recare molestia) in danno di terzi che si atteggiano quali proprietari esclusivi del bene.
STUDIO LEGALE AVV. PAOLO ACCOTI
Viale della Libertà n. 496
87075 TREBISACCE (CS)
Tel. 0981 1987035 Fax 0981 1987038
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Riforma Catasto, Ministero Economia: nessun aumento della pressione fiscale

Riforma Catasto, Ministero Economia: nessun aumento della pressione fiscale


I geometri propongono sgravi fiscali per coinvolgere i cittadini nella riclassificazione degli immobili


16/06/2015 - Invarianza di gettito senza alcun aumento della pressione fiscale, dialogo con enti locali e cittadini per una procedura partecipata di riclassificazione degli immobili.
Riforma Catasto, Ministero Economia: nessun aumento della pressione fiscale


Questi alcuni argomenti trattati nel corso del convegno del 12 giugno 2015 “Il nuovo Catasto: cosa cambia per il cittadino, per il professionista, per l’amministratore pubblico” promosso dal Vice Ministro della Giustizia, Enrico Costa, che ha visto la partecipazione anche del Vice Ministro dell’Economia e delle Finanze, Luigi Casero, e il Presidente del Consiglio Nazionale Geomentri e Geometri Laureati,Maurizio Savoncelli, il Direttore Centrale Catasto e Cartografia dell’Agenzia delle Entrate, Franco Maggio; il Presidente di Confedilizia,  Giorgio Spaziani Testa; un esperto in finanza locale, Maurizio Delfino. 
 

Nuovo catasto: i soggetti interessati

Il confronto ha toccato gli aspetti tecnici interpretativi e normativi di un intervento che riguarda una platea di oltre 20 milioni di persone, proprietarie di circa 62 milioni di unità immobiliari. Questi numeri importanti per essere affrontati e gestiti hanno bisogno di una collaborazione virtuosa tra professionisti, cittadini e amministrazioni.

Nell’introdurre i lavori, il Vice ministro Enrico Costa ha sottolineato questo aspetto ribadendo l’importanza dicoinvolgere gli interlocutori più autorevoli (come i professionisti, gli enti locali e i cittadini) e di dialogare costantemente con “il territorio”.

Il Viceministro ha dichiarato: “Si tratta di una riforma che non riguarda solo i professionisti ma anche amministrazioni, comuni, cittadini e proprietari edilizi. Abbiamo cercato di mettere intorno ad un tavolo tutti gli attori coinvolti.Inviteremo esperti urbanisti e anche coloro che ci consentiranno di creare un collegamento con le amministrazioni locali, anche dal punto di vista fiscale.
 

Riforma catasto: invarianza del gettito fiscale

Il Vice ministro Luigi Casero ha ribadito la necessità che la riforma del catasto sia condotta in base al principio dell’invarianza di gettito, senza alcun aumento della pressione fiscale. Secondo Casero sarà finalmente possibile superare un sistema che nei decenni ha prodotto fortissime iniquità e sperequazioni a livello territoriale, minando il rapporto con il contribuente.

Casero ha dichiarato: “A causa del vecchio sistema case uguali sono state valutate in maniera differente; bisogna superare questo limite per cui case uguali devono essere valutate allo stesso modo e devono essere valutate in modo semplice, ad esempio passando dalla valutazione in vani ai metri quadri”.

L’obiettivo della riforma sembra quello di recuperare il rapporto cittadino -contribuente puntando sulla trasparenza, sull’equità e sulla tecnologia, che può consentire alle banche dati di essere aggiornate in tempo reale.
 

Aggiornamento catastale incentivato

Maurizio Savoncelli, Presidente CNGeGL, ha proposto un ulteriore elemento di riflessione: ilcoinvolgimento diretto dei cittadini alle operazioni di classificazione degli immobili (unitamente alle amministrazioni locali e ai professionisti) incentivando, con premi fiscali, i privati che aggiornano volontariamente i valori catastali.

Un assist subito colto da Casero, che ha ipotizzato l’utilizzo di sgravi fiscali a sostegno di una proposta giudicata interessante e capace di far compiere un successivo passo avanti in direzione del “fisco amico”.

Secondo il CNGeGL questa sinergia potrebbe fortemente limitare l’inevitabile impatto sociale della riforma grazie ad un ascolto preventivo dei dubbi e delle necessità dei contribuenti, preziosi input anche per la “messa a punto” di un nuovo sistema di aggiornamento automatico delle banche dati.
FONTE : EDILPORTALE.COM

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