mercoledì 29 aprile 2015

UN VERBALE DI RICONSEGNA PER EVITARE «MALINTESI»

UN VERBALE DI RICONSEGNA PER EVITARE «MALINTESI»

Mia moglie è proprietaria di un appartamento concesso in locazione il 5 maggio 2014. La conduttrice, con una nota del 22 gennaio 2015, inviata per raccomandata, ha comunicato la sua intenzione di recedere dal contratto e di consegnare l'appartamento alla fine di aprile 2015. Al contempo ha comunicato la sua disponibilità a rinunciare al recupero della cauzione versata, per compensare le ulteriori tre mensilità da maggio a luglio 2015, data di fine periodo di preavviso, come da contratto. Se si dovesse acconsentire al rilascio anzitempo dell'appartamento, la conduttrice potrebbe successivamente ritenersi non più obbligata al versamento dei canoni fino a luglio, nonostante la comunicazione espressa in senso diverso, e pretendere la restituzione della cauzione? Quali precauzioni si potrebbero prendere per tale evenienza?
In caso di recesso anticipato dal contratto, in forza di una clausola espressa inserita nel contratto stesso, è opportuno che tra le parti si rediga un verbale di riconsegna. In questo devono essere elencati lo stato dei locali, la presenza di eventuali rotture o guasti, l'avvenuto pagamento fino a una certa data di canoni spese, l'eventuale compensazione, totale o parziale, degli importi dovuti dal conduttore con il deposito cauzionale a mani del soggetto locatore, maggiorato degli interessi maturati. A fronte di un simile atto, ove sono evidenziati i reciproci crediti (canoni e spese scaduti e a scadere fino al termine del periodo di preavviso per il locatore, deposito cauzionale per il conduttore se non vi sono danni materiali nei locali) e si rilascia una reciproca liberatoria, il conduttore nulla potrebbe più pretendere, anche nell'ipotesi di un suo ripensamento.
FONTE : CASA24PLUS

Euribor sotto lo zero, mai così i mutui

Euribor sotto lo zero, mai così i mutui

 in “MutuiOnline informa
euribor sotto lo zero
Il meccanismo virtuoso del Quantitative easing ha prodotto i suoi effetti: l’iniezione di liquidità dei titoli di Stato da 60 miliardi ha messo in circolo le forze economiche necessarie a spingere al ribasso i tassi di interesse e, secondo il presidente della Bce Mario Draghi, con "condizioni di indebitamento per imprese e famiglie migliorate in misura considerevole".
Così, dopo l’Euribor a un mese, anche l’Euribor a tre mesi - il tasso di interesse tra le banche e quello al quale si aggancia gran parte dei mutui a tasso variabile - è sceso sotto lo zero: meno 0,001% il valore raggiunto dopo essersi assestato poco sopra lo zero percento per settimane. Valori di eccezionale straordinarietà se si pensa che solo nel 2008 l’Euribor trimestrale era intorno al 4%.
Riparte così alla grande il mercato dei mutui in tutto il Paese, registrando erogazioni a due cifre come non succedeva dal 2006: secondo l’Associazione bancaria italiana più 32,5% nel 2014 rispetto al 2013, per un ammontare totale di 25,3 miliardi di euro. E il trend positivo è continuato nei primi mesi di questo anno, quando a gennaio e febbraio l’incremento delle erogazioni è arrivato al 35%.
Dato ancora più straordinario se si considera che invece i prestiti erogati alle famiglie hanno fatto registrare un -0,4% a febbraio scorso rispetto all’anno precedente.
Lo dice la Banca d’Italia, secondo la quale nel quarto trimestre dello scorso anno l’erogazione di finanziamenti alle famiglie per l’acquisto della prima casa è stato pari a 7,077 miliardi di euro, 25% in più se lo si mette a confronto con lo stesso periodo del 2013.
Ma quali sono le conseguenze sugli istituti di credito e, a cascata, sui consumatori che si apprestano a chiedere un mutuo? All’Euribor, il tasso interbancario che definisce la base del tasso di interesse applicato al finanziamento, si deve aggiungere lo spread, la percentuale stabilita dalle banche che definisce il loro guadagno. Ma se L’Euribor è sotto lo zero, allo spread bisognerà sottrarre quella parte negativa imputabile all’Euribor e la conseguenza sarà un abbassamento del tan del mutuo, il suo tasso annuo nominale.
Secondo Ciaran Ò Hagan, strategist di Societè Generale, “prestare denaro a queste condizioni evitando che parcheggi negli investimenti sull’interbancario, vuol dire per gli istituti di creditoassumere più rischi, con l’alta probabilità che quel rischio vada a finire tra le voci di costo a carico delle famiglie”.
In un quadro come quello attuale di tassi ridotti ai minimi e Euribor negativo, la tentazione a scegliere un mutuo a tasso variabile è alta. Tuttavia, per periodi molto lunghi, bisogna tenere conto che la prospettiva per il futuro dei tassi è inevitabilmente al rialzo: non nell’immediato, ma sicuramente nel medio e lungo termine.
Questo vuol dire che i tassi variabili rappresentano adesso la soluzione più economica ma non sarà sempre così. È consigliabile allora “cogliere le buone occasioni al volo, ma tenendo bene a mente i possibili scenari futuri.
È meglio che la rata non superi il 23% del reddito familiare, così da poter sostenere anche aumenti pari al 30%”, commenta Massimiliano Dona, segretario dell’Unione nazionale consumatori, riferendosi ai dati presentati dall’Agenzia delle entrate sulle compravendite che hanno registrato più 1,8% dopo 7 anni in negativo.

FONTE : MUTUIONLINE 
A cura di 

Compravendita immobiliare, le famiglie italiane comprano il trilocale

Compravendita immobiliare, le famiglie italiane comprano il trilocale

Nella seconda parte del 2014 il trilocale è stata la tipologia più acquistata dai coniugi con il 33,6% delle preferenze
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a cura di Redazione
24 aprile 2015 | ore 11:55
Un’analisi delle compravendite realizzate attraverso le agenzie del Gruppo Tecnocasa sul territorio nazionale nel secondo semestre del 2014 ha rilevato che il 53,2% degli scambi sono stati effettuati da persone coniugate. Il dato risulta sostanzialmente invariato rispetto ad un anno fa, quando la percentuale di compravendite da parte di coniugi si attestava sul 52,9% (II semestre 2013).

LOCALI PREFERITI - Nella seconda parte del 2014 il trilocale è stata la tipologia più acquistata dai coniugi con il 33,6% delle preferenze, al secondo posto ci sono ville, villette, case e tutte le tipologie indipendenti e semindipendenti che nel complesso raggiungono il 20,1% delle compravendite, seguite da vicino dai quattro locali con il 19,6% degli acquisti. Prevale l’acquisto dell’abitazione principale (69,6%), seguito dalla casa ad uso investimento (20,7%) e poi dalla casa vacanza (9,7%). Nel 52,6% dei casi i coniugi hanno acquistato grazie all’ausilio di un mutuo bancario, mentre il 47,4% delle transazioni è avvenuto in contanti.
FONTE : SOLDIWEB

Mutui a interesse negativo. E i soldi vengono restituiti

Mutui a interesse negativo. E i soldi vengono restituiti

Alcuni prestiti spagnoli raggiungono tassi di interesse negativi. Uno scenario simile potrebbe accadere anche in Italia?

a cura di Sos Tariffe
27 aprile 2015 | ore 08:50
Immagine non disponibile
Sarebbe il sogno proibito di ogni mutuatario: quello di ottenere da una banca o da una finanziaria un finanziamento e restituire le somme avute in prestito senza pagare alcun interesse. Come è possibile? Uno scenario simile potrebbe accadere?

IN SPAGNA - Tutto questo, ovviamente, non sarebbe possibile, in quanto i maggiori proventi degli istituti che erogano prestiti derivano proprio dall’attività creditizia, in particolare dagli interessi praticati sulle somme concesse. Ma in Spagna appunto sta succedendo qualcosa di impensabile e che si avvicina molto al sogno dei debitori. Infatti la banca spagnolaBankinter, ha comunicato a molti dei propri clienti che verranno loro accreditate delle somme, in quanto il tasso di interesse complessivo del loro finanziamento è diventato negativo. Come è possibile?

QUALE MUTUO - La cosa riguarda solo i titolari di un mutuo promozionale lanciato nel 2008 ancorato al franco svizzero, a cui è stato applicato uno spread minimo dello 0,05%. Come noto la Svizzera nei mesi scorsi ha adottato una politica monetaria con l’obiettivo di raggiungere la parità tra euro e franco svizzero. Questo ha portato ad avere tassi interbancari molto bassi, che nelle scorse settimane sono abbondantemente scesi sotto il segno meno. Di conseguenza, i tassi di interesse praticati sui prestiti, che dipendono dalla somma tra spread (che rappresenta il margine di guadagno dell’istituto erogatore) e tassi interbancari, hanno avuto un saldo negativo, dando luogo ad una situazione apparentemente paradossale.

SCENARIO IN ITALIA? - È assai improbabile che anche nel nostro Paese si possa verificare quanto accaduto in Spagna. Il caso iberico è un caso del tutto eccezionale, trattandosi di mutui con uno spread eccezionalmente basso e parametrato al franco svizzero, mentre nella maggior parte dei mutui erogati nei Paesi dell’Eurozona la moneta di riferimento è l’euro. Per giunta la storica scelta di politica monetaria adottata dal Paese elvetico è stata decisiva nella determinazione determinazione dei tassi interbancari così bassi.

TASSI IN DISCESA - Tuttavia è possibile che in un futuro prossimo i tassi di interesse scendano ancora anche da noi. I tassi interbancari di riferimento nell’Eurozona per i mutui a tasso variabile sono gli Euribor. L’Euribor a 3 mesi, infatti ha raggiunto lo 0%, mentre quello a un mese ha toccato lo 0,03%. Per vedere azzerati gli interessi sul proprio prestito, l’Euribor dovrebbe scendere sotto lo zero per un valore pari allo spread praticato dalla banca. Ad esempio, se lo spread è del 2%, l’Euribor dovrebbe essere pari a -2%. Questo scenario è assai improbabile che si verifichi, ma parte dello spread potrebbe essere compensata dalla caduta dei tassi interbancari.

CLAUSOLE CONTRATTUALI - Ad ogni modo non tutti i contratti di mutuo prevederebbero la restituzione delle somme, come è accaduto in Spagna, nel caso in cui il saldo degli interessi diventasse negativo. Infatti spesso ci sono delle clausole contrattuali che prevedono, ad esempio, delle soglie sui ribassi dei tassi, oppure che prevedono degli arrotondamenti in eccesso dei tassi, che di fatto vanificherebbero l’eventualità di “inversione” dei tassi di interesse sui prestiti.
FONTE : SOLDIWEB

Prestito vitalizio, 6 cose da sapere

Prestito vitalizio, 6 cose da sapere

La normativa, approvata in via definitiva il mese scorso, è riservata ai proprietari over 60. Ecco di cosa si tratta

a cura di Redazione
28 aprile 2015
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Si chiama prestito vitalizio ipotecario, in sostanza non è altro che un mutuo alla rovescia: cioè la possibilità di ricevere un finanziamento da parte delle banche o di altri intermediari finanziari mettendo un’ipoteca sulla propria abitazione. La normativa, approvata in via definitiva il mese scorso, è riservata ai proprietari over 60. Entrerà in vigore a partire dal prossimo 6 maggio e, scrive l’HuffPost Italia, può diventare un preziosissimo canale di accesso al credito per chi, come le persone anziane, spesso può trovarsi di fronte alla necessità di ottenere liquidità.

1. Chi può usufruirne
La normativa è rivolta a tutti i proprietari di casa che abbiano compiuto 60 anni. Le regole precedenti avevano fissato il limite di età a 65 anni.

2. I vantaggi
Il prestito ipotecario consente di convertire una parte del valore del proprio immobile in un finanziamento, mantenendone comunque la proprietà. Agli eredi viene poi concessa la possibilità di recuperare l’immobile dato in garanza.

3. Il rimborso
Il prestito potrà essere rimborsato direttamente dal suo beneficiario, oppure spetterà ai suoi eredi che potranno decidere se estinguere il debito a proprie spese, vendere l’immobile ipotecato con o senza l’intermediazione della banca finanziatrice.


4. Il pagamento in un'unica soluzione
La normativa prevede tre casi di rimborsi obbligatori in un’unica soluzione, qualora il beneficiario del finanziamento non abbia concordato una modalità di rimborso graduale. In caso di morte del beneficiario, se la proprietà viene trasferita ad altri soggetti o se vengono effettuati lavori tali da ridurre sensibilmente il valore dell’immobile. Se entro dodici mesi il prestito non viene rimborsato la banca o l’ente finanziatore può vendere l’immobile e usare il ricavato per estinguere il credito.

5. Le tasse
Il beneficiario del prestito dovrà continuare a pagare le imposte patrimoniali relative all’abitazione, cioè Imu e Tasi, oltre alla tassa sul consumo dei rifiuti, dal momento che egli resta il proprietario dell’immobile. Viene inoltre applicata un’aliquota sostitutiva del 0,25% sull’ammontare complessivo dei finanziamenti, che accorpa imposte di bollo, imposte di registro, ipotecarie, catastali e tasse di concessioni governative.

6. Un esempio
Un uomo di 65 anni proprietario di un'abitazione del valore di 200 mila euro potrebbe chiedere un finanziamento pari al 20% del valore dell’immobile: 40 mila euro. Immaginando un tasso del 5%, il beneficiario può decidere di versare gli interessi annualmente, quindi 2000 euro, oppure insieme al rimborso della somma finanziata. In questo caso, visto che gli interessi sono capitalizzati annualmente, la cifra da pagare sarà superiore rispetto a quanto si pagherebbe saldando ogni anno soltanto gli interessi.
FONTE : SOLDIWEB

martedì 28 aprile 2015

È possibile lasciare le biciclette nel sottoscala comune?

È possibile lasciare le biciclette nel sottoscala comune?

In materia di uso delle parti comuni di un edificio in condominio è lecito depositare nel sottoscala delle biciclette?
Per rispondere alla domanda posta da uno dei nostri lettori nel nostro forum, è necessario guardare alle regole che disciplinano l'uso delle cose comuni.
Due le fonti da tenere in considerazione:
a) la legge, ed in particolare gli artt. 1102 e 1117-quater c.c.;
b) il regolamento di condominio, laddove esistente.
Partiamo dalla legge. Ai sensi del primo comma dell'art. 1102 c.c. – dettato in materia di comunione ma pacificamente applicabile anche al condominio negli edifici in ragione del rimando contenuto nell'art. 1139 c.c. – ciascun condomino può utilizzare le cose comuni per soddisfare le proprie esigenze connesse al godimento della propria unità immobiliare, purché tale uso non alteri la destinazione del bene, non crei problemi alla sicurezza, alla stabilità ed al decoro dell'edificio e non limiti il pari diritto degli altri condòmini.
Pari diritto d'uso Cosa debba intendersi per diritto al pari uso delle parti in condominio non vuol dire utilizzazione identica e contemporanea, “fruito cioè da tutti i condomini nell'unità di tempo e di spazio, perché se si richiedesse il concorso simultaneo di tali circostanze si avrebbe la conseguenza della impossibilità per ogni condomino di usare la cosa comune tutte le volte che questa fosse insufficiente a tal fine [...]" (Cass. 16 giugno 2005 n. 12873).
Non solo: secondo gli ermellini, le diverse esigenze dei condòmini devono portare alla regolamentazione dell'uso e mai al divieto tranchant. Si legge in una sentenza del 2011 che non sembra “ragionevole individuare a carico del diritto del singolo condomino, che si serva delle parti comuni in funzione del migliore e più razionale godimento del bene di proprietà individuale, limiti e condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione secondo i parametri stabiliti dalla specifica disciplina ai riguardo dettata dall'art. 1102 c.c.” (così Cass. 21 dicembre 2011, n. 28025).
Traslando questi principi sul piano concreto del deposito della bicicletta nel sottoscala si arriva a questa considerazione: è evidente che un sottoscala quasi sempre non sarebbe in grado di ospitare tutti i velocipedi dei condòmini. Ciò, però non sta a significare divieto assoluto di farne quell'uso da parte del singolo, ma necessità di regolamentazione e contemperamento degli interessi qualora più di uno volesse utilizzarlo in tal modo. Come per il parcheggio delle autovetture, quindi, se sorgessero esigenze della medesima specie si potrebbe arrivare ad un regolamentazione mediante un uso turnario. Da qui l'importanza del regolamento condominiale o di una delibera avente la medesima funzione, cioè quella di disciplinare l'uso delle cose comuni (art. 1138, primo comma, c.c.).
Si presente, o meno, un regolamento, nel caso di utilizzazione illegittima di un bene comune ciascun condomino potrebbe invocare la violazione dell'art. 1102 c.c. o comunque chiedere la cessazione dell'uso lesivo ai sensi dell'art. 1117-quater c.c. che recita:
In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136”.
In definitiva: in linea di principio è possibile depositare una bicicletta nel sottoscala Sono proprietario esclusivo delle scale, ma non per forza delle sottoscale, fermo restando il pari diritto d'uso degli altri condòmini e la tutela della destinazione del bene comune. Si tratta di valutazioni da svolgere caso per caso che sfuggono ad una catalogazione astratta.



Condannata la compagnia che sospende la fornitura di gas nonostante l'utente abbia correttamente comunicato l' avvenuto pagamento della bolletta.

Condannata la compagnia che sospende la fornitura di gas nonostante l'utente abbia correttamente comunicato l' avvenuto pagamento della bolletta.


Sospensione arbitraria della fornitura di servizi. Condannata la società erogatrice al risarcimento dei danni sopportati da un utente che, diligentemente, aveva comunicato l'avvenuto pagamento della bolletta.
Il fatto.
Un utente cita in giudizio la società distributrice del gas, per la condanna della stessa al risarcimento dei danni materiali, patrimoniali e non patrimoniali sopportati per l'arbitraria sospensione della fornitura del gas malgrado la comunicazione, da parte dell'utente: via fax dell'avvenuto pagamento della bolletta, e tramite posta elettronica del reclamo proteso a segnalare al fornitore il disservizio subito.
L'utente, nel caso di specie, dopo aver ricevuto due solleciti di pagamento relativi a fatture non pagate ha provveduto ad inviare via fax, alla società, copia del pagamento premurandosi anche di inviare tramite posta elettronica un reclamo all'indirizzo indicato dalla società per le comunicazioni; tuttavia sebbene abbia osservato un comportamento assolutamente diligente si è visto sospendere per ben due volte la fornitura di gas da parte della società fornitrice. (Sospensione per morosità del servizio di fornitura dell'acqua. L'amministratore può chiedere un provvedimento di urgenza al giudice.)
A fronte del palese inadempimento agli obblighi contrattuali gravanti sul fornitore, in seguito alla conclusione di un contratto di somministrazione, l'utente decide di agire in giudizio.
La sentenza. La sentenza del Giudice di Pace in commento, considerati i fatti di causa , peraltro adeguatamente provati da parte dell'attore , ha rilevato la sospensione arbitraria della fornitura di gas; osservando che la disciplina vigente che regola la fornitura di energia elettrica e di gas dispone che la stessa non può essere sospesa quando il pagamento della bolletta sia stato già eseguito e comunicato dall'utente al fornitore.
In base a tali valutazioni la sentenza del Giudice di pace di Reggio Calabria condanna la società a corrispondere all'utente un indennizzo a fronte dell'inadempimento contrattuale della società addetta alla somministrazione del gas, manifestatosi con l'interruzione arbitraria della somministrazione malgrado la corretta comunicazione alla società da parte dell'utente, dell'avvenuto pagamento della bolletta.
La pronuncia a tal proposito puntualizza che il contratto per la fornitura di gas è un contratto di somministrazione disciplinato dall'art. 1559 del codice civile, che impone all'utente di pagare periodicamente quanto dovuto ed al gestore di impedire l'interruzione del servizio.
Partendo da tale presupposto nel momento in cui l'utente effettua con mezzi idonei ( fax, invio di comunicazione all'indirizzo di posta elettronica indicata dalla società per le comunicazioni) la comunicazione dell'avvenuto pagamento dei consumi indicati in bolletta, la successiva sospensione dell'erogazione da parte del fornitore ( di gas nel caso di specie) risulta arbitraria ed illegittima configurandosi un inadempimento all'obbligo derivante dal contratto stipulato con l'utente.
A diverse conclusione approda, invece, la sentenza per quanto concerne il risarcimento dei danni non patrimoniali rilevando che il “disagio” o “fastidio” sopportato dall'attore a fronte della mancata fornitura del gas non può essere considerato come condizione sufficiente a concretizzare un danno esistenziale.
In merito al risarcimento del danno non patrimoniale , la pronuncia in commento si riporta ad una sentenza della Cassazione a sezioni unite che ha puntualizzato che “non possono essere risarcite tutte le lesioni alla persona ovvero tutti i pregiudizi non patrimoniali, ma soltanto quelle che realizzano un'ingiustizia costituzionalmente qualificata” (Cass. Sez. Un. 11.11.2008 n. 26972)
Dopo aver effettuato aver chiarito tale aspetto la sentenza del Giudice di Pace di Reggio Calabria evidenzia i comportamenti arbitrari e contrari alle regole di esecuzione del contratto secondo buona fede che, spesso, adottano le società che provvedono alla somministrazione di servizi come gas ed energia elettrica determinano una serie di disservizi agli utenti.
Questi ultimi, infatti, devono ricordare che nel momento in cui provvedono a comunicare l'avvenuto pagamento delle bollette, hanno adempiuto correttamente l'obbligo che il contratto di somministrazione pone a loro carico, e possono vantare il diritto a continuare a pretendere l'erogazione del servizio.

Giudice di Pace di Reggio Calabria, sez.civ., 26.8.2014 n.1614


Fonte : www.condominioweb.com


lunedì 27 aprile 2015

CEDOLARE: NON È NECESSARIA L'ASSISTENZA DI ASSOCIAZIONI

CEDOLARE: NON È NECESSARIA L'ASSISTENZA DI ASSOCIAZIONI

Ho dato in affitto un appartamento con la cedolare secca "ordinaria" al 21 per cento, ma vorrei prendere in considerazione quella agevolata, che è passata dal 15 al 10 per cento, cambiando il contratto con uno concordato. Purtroppo, secondo quanto mi risulta, non posso conoscere autonomamente l'importo del nuovo canone se non mi iscrivo a qualche associazione degli inquilini o proprietari pagando la relativa iscrizione. È proprio così? Esiste un software che, gratis o a pagamento, può effettuare i calcoli che mi interessano?
Le associazioni di categoria dei proprietari di casa e i sindacati degli inquilini non sono indispensabili per il calcolo del cosiddetto affitto concordato, di cui all’articolo 2, comma 3, della legge 431/1998 (con durata di tre anni più due), che consente l’accesso al regime della cedolare secca con aliquota del 10 per cento (articolo 3 del Dlgs 23/2011). Infatti, l’articolo 1, comma quattro, del Dm Infrastrutture e trasporti 30 dicembre 2002 dispone che, «nella definizione del canone effettivo, collocato tra il valore minimo ed il valore massimo delle fasce di oscillazione, le parti contrattuali, assistite - a loro richiesta - dalle rispettive organizzazioni sindacali, tengono conto dei seguenti elementi...». D’altra parte, gli accordi raggiunti in sede locale sono depositati presso i Comuni. Tuttavia, l’assistenza delle associazioni di categoria può essere utile, tanto più che ogni città può avere un proprio accordo, diverso da quelli delle altre, e che vi possono essere difficoltà di interpretazione dell’accordo stesso. Senza contare che, per l’articolo 13, comma 4, della legge 431/1998, è nullo il patto che prevede un canone superiore a quello stabilito dagli accordi locali.Non ci risulta esistere un software "affidabile" per il calcolo dell’affitto concordato, tenuto anche conto delle peculiarità di ogni singolo accordo locale.
FONTE : CASA24PLUS

Bene comune. Vietato l'uso esclusivo senza una deliberazione assunta all'unanimità

Bene comune. Vietato l'uso esclusivo senza una deliberazione assunta all'unanimità


Non è ammessa la trasformazione di un bene comune in bene esclusivo di uno dei condomini con deliberazione non assunta all'unanimità


Il caso Nella fattispecie gli attori convenivano in giudizio il condominio nonché i singoli condomini per sentire annullare le deliberazioni adottate dall'assemblea in sede di riunione condominiale. La citazione veniva dichiarata nulla dal giudice di prime cure per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di alcuni condomini. Gli attori impugnavano, pertanto, la sentenza. La Corte di appello, muovendo dalla premessa secondo la quale “la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di alcuni condomini non avrebbe potuto determinare la nullità della citazione, bensì la sola estinzione del rapporto processuale riguardante le uniche domande rispetto alle quali erano legittimati i singoli condomini e non l'amministratore del condominio”, riformava la sentenza di primo grado, sostituendo la dichiarazione di nullità dell'atto di citazione con la pronuncia di estinzione del processo nei confronti del rapporto processuale avente ad oggetto le domande di modificazione del regolamento condominiale contrattuale e di revisione delle tabelle millesimali allegate. La corte, inoltre, nel rilevare che la domanda relativa alla asserita erroneità della ripartizione delle spese di ascensore non era stata formulata in primo grado, la dichiarava inammissibile in grado di appello per il suo carattere di novità. Infine, accoglieva l'impugnazione nella parte in cui l'assemblea, con le deliberazioni impugnate, aveva accreditato solo ad alcuni condomini la quota del ricavo realizzato annualmente mediante la riscossione del canone di locazione del locale originariamente destinato ad alloggio del custode, violando, di fatto, quanto stabilito dal regolamento condominiale. Per la cassazione delle sentenza emessa dalla corte di appello ricorreva il condominio. (Deliberare la trasformazione dei magazzini in garage.)
La decisione La Suprema Corte esamina i tre motivi di ricorso:
1. Con il primo motivo si chiede alla Corte di accertare se il giudice del gravame abbia pronunciato “extra petita”, per aver dichiarato la nullità delle delibere impugnate,con riferimento alle statuizioni attinenti alla ripartizione del canone relativo all'alloggio ex portineria, statuendo su di una domanda non proposta in primo grado, ma formulata solo sotto forma di eccezione. La Corte reputa infondato il motivo, affermando che “non si tratta di difetto di domanda, ma di interpretazione della stessa, attività riservata al giudice del merito”. E, sulla scorta di tale considerazione, precisa che gli attori hanno proposto anche domanda di nullità delle delibere con riferimento alle statuizioni attinenti alla ripartizione del canone relativo all'alloggio ex portineria, ribadendo il principio affermato dal giudice del gravame, ossia che “la trasformazione in tutto o in parte nell'ambito di un condominio di un bene comune in bene esclusivo di uno dei condomini attraverso l'esclusione di altri condomini dal percepimento dei frutti può essere validamente deliberata soltanto all'unanimità, ossia mediante una decisione che abbia valore contrattuale, dovendosi in difetto dichiarare la nullità della deliberazione dell'assemblea assunta a maggioranza”.
2. Per le medesime ragioni la Corte ritiene infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce violazione dell'art. 1137 cod.civ. “per avere la corte di merito erroneamente ritenuto di doversi pronunciare sulla nullità delle delibere in commento, accogliendo la eccezione di decadenza promossa dagli appellati esclusivamente in relazione alle modalità e criteri con i quali, nei singoli esercizi cui si riferivano i rendiconti approvati, era stata disposta la suddivisione delle spese dell'acqua e dell'ascensore, e non anche in relazione alle deliberazioni stesse nella parte in cui l'assemblea aveva accreditato”solo ad alcuni condomini il canone di locazione dell'unità originariamente destinata ad alloggio del portiere, di cui aveva asserito la nullità.
3. Con il terzo motivo si deduce che il giudice del gravame abbia erroneamente dichiarato l'estinzione del processo solo nei confronti del rapporto processuale avente per oggetto le domande per le quali non era stato integrato il contraddittorio, decidendo nel merito sulle altre domande, laddove, invece, avrebbe dovuto dare atto dell'estinzione dell'intero giudizio a seguito della mancata integrazione del contraddittorio, non essendo tra loro scindibili le cause promosse. Anche il predetto motivo viene ritenuto infondato. Muovendo dalla considerazione secondo la quale “in caso di pluralità di domande proposte nello stesso giudizio e non legate fra loro da vincolo di dipendenza, ciascuna di esse rimane distinta dalle altre e può avere vita autonoma”, con la conseguenza che laddove “il giudice abbia ordinato l'integrazione del contraddittorio soltanto in riferimento ad una delle domande proposte, e la parte non abbia ottemperato a tale ordine, la sanzione per l'omessa integrazione non può estendersi anche alla domanda per la quale l'ordine di integrazione non sia stato impartito”, la Corte, ritiene che, nella fattispecie in esame, il giudice del gravame abbia correttamente “distinto le domande proposte dagli attori tra quelle aventi ad oggetto le impugnazioni delle delibere dell'assemblea condominiale relative alla ripartizione dei ricavi della locazione dell'alloggio ex portineria, in relazione alle quali legittimato passivo era esclusivamente l'amministratore del condominio, e quelle relative alla revisione del regolamento condominiale e delle tabelle millesimali, che vedevano la legittimazione passiva di tutti i condomini”.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte rigetta il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
I “precedenti”. La sentenza in commento aderisce all'orientamento già più volte espresso dalla Suprema Corte, secondo la quale vi sono deliberazioni che devono essere assunte necessariamente all'unanimità: in difetto la delibera è nulla. Si veda, in argomento, la sentenza n. 10196 del 30 aprile 2013 (Cass., sez. II), richiamata dalla stessa Corte nella pronuncia in commento, ai sensi della quale “È nulla la delibera dell'assemblea di condominio, adottata a maggioranza, che stabilisca il tasso (nella specie, nella misura del venti per cento annuo) degli interessi moratori a carico dei condomini in caso di omesso o ritardato pagamento degli oneri condominiali, potendo una siffatta disposizione essere inserita soltanto in un regolamento condominiale di natura contrattuale, approvato all'unanimità; e l'anzidetta nullità, che può essere fatta valere dal condomino interessato senza essere tenuto all'osservanza del termine di decadenza di trenta giorni di cui all'art. 1137 c.c., inficia e travolge anche le successive delibere, nella parte in cui, ripartendo gli oneri di gestione tra i condomini in relazione al singolo anno, applicano il medesimo tasso di mora”. Beni comuni solo ad alcuni condomini: è nulla la deliberazione che ripartisce il costo di gestione tra tutti quanti
Cassazione 14 aprile 2015, n. 7459


Fonte : www.condominioweb.com


Spese condominiali: restano a carico del venditore se si riferiscono a servizi prestati durante il periodo in cui era ancora proprietario

Spese condominiali: restano a carico del venditore se si riferiscono a servizi prestati durante il periodo in cui era ancora proprietario

La delibera assembleare, successiva, non ha valore costitutivo dell'obbligo del singolo di contribuire alla spesa


La ripartizione degli oneri tra il soggetto che ha ceduto il diritto di proprietà e il soggetto che l'ha acquistato si pone come una questione estremamente delicata. Norma di riferimento è la previsione contenuta nell'art. 63 disp., comma 4 [già comma 2], disp. att. c.c. che statuisce: «Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso ed a quello precedente». Fondamentale diviene l'individuazione del momento in cui sorge l'obbligo contributivo.
Il caso Il Giudice di pace, in sede di opposizione a due decreti ingiuntivi emessi nei confronti di un ex condomino, accoglieva l'istanza dell'opponente. Gli opposti (un supercondominio e un condominio) proponevano allora appello, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui aveva fondato l'annullamento dei decreti ingiuntivi sul difetto di legittimazione passiva dell'appellato in quanto ritenuto dal Giudice di pace «soggetto terzo rispetto ai condomini delle assemblee successive alla vendita dell'appartamento». Le spese condominiali , cosa paga il venditore e il compratore.


La decisione Il Tribunale, in veste di giudice dell'appello, ha giudicato fondata l'impugnazione, chiarendo in primo luogo che nei confronti dell'appellato non era in effetti più azionabile la procedura di cui all'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., volta ad ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo: all'epoca dell'emissione dei decreti ingiuntivi l'appellato aveva infatti perduto lo status di condomino per effetto della vendita della propria unità immobiliare. Tuttavia, ha proseguito l'organo giudicante, oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è anche l'accertamento della fondatezza della domanda di merito introdotta con il decreto ingiuntivo opposto: ebbene, le pretese creditorie avanzate dai condomini appellanti si riferivano pacificamente a servizi prestati durante il periodo in cui l'appellato era ancora proprietario dell'appartamento, sebbene le relative spese fossero state approvate dall'assemblea con delibera successiva. La partecipazione al condominio comporta infatti, ex art. 1123 c.c., l'obbligo di contribuire, pro quota, alle spese necessarie per la conservazione e il godimento delle cose comuni, la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Il Tribunale ha dunque ricordato che le spese condominiali, per consolidato indirizzo interpretativo, sono considerate una tipica obbligazione propter remil soggetto obbligato è individuato sulla base del suo rapporto con la res; il condomino, in quanto proprietario della singola unità immobiliare, è obbligato, in proporzione al valore della sua unità immobiliare, al pagamento delle spese di cui al citato art. 1123, comma 1, c.c. Detta titolarità passiva non deriva pertanto dalla «delibera assembleare, che non ha valore costitutivo, ma meramente dichiarativo, operando semplicemente la quantificazione e la ripartizione delle spese sulla base delle tabelle millesimali».
La ripartizione delle spese straordinarie deliberate ed eseguite dopo la vendita Se l'alienante e l'acquirente non stabiliscono nulla sulle spese già eseguite, o sulle spese deliberate e ancora da eseguire, occorre individuare in altro modo il soggetto su cui gravano i relativi contributi condominiali. La giurisprudenza, chiamata di frequente a pronunciarsi in materia, non ha mantenuto un orientamento univoco, complicando ulteriormente la questione con non pochi punti di contrasto. Il punto problematico era determinare se l'obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni condominiali derivasse dalla preventiva approvazione e ripartizione della spesa, oppure dalla concreta attuazione dell'attività di manutenzione. Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale decisiva ai fini dell'insorgenza dell'obbligazione dei condomini di contribuzione al pagamento delle spese condominiali sarebbe la delibera assembleare di approvazione della spesa: il condomino che vende l'immobile di sua esclusiva proprietà sarà tenuto a contribuire alle spese condominiali deliberate quando era ancora proprietario (Cass. civ., 26 ottobre 1996, n. 9366; Cass. civ., 2 febbraio 1998, n. 981).
Secondo una differente impostazione, l'obbligo dei condomini di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio deriva non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta attuazione dell'attività di manutenzione, e sorge quindi per effetto dell'attività gestionale concretamente compiuta (Cass. civ., 9 novembre 2009; Cass. civ., 9 settembre 2008, n. 23345; Cass. civ., 1° luglio 2004, n. 12013; Cass. civ., 18 aprile 2003, n. 6323; Cass. civ., 26 gennaio 2000, n. 857; Cass. civ., 17 maggio 1997, n. 4393). Da ultimo, la giurisprudenza ha individuato un ulteriore criterio di ripartizione, fondato sulla natura delle spese deliberate. È infatti tutt'altro che improbabile che lavori ed interventi siano approvati in sede assembleare in un momento precedente alla vendita. Ebbene, superando il secondo indirizzo interpretativo, la Suprema Corte ha chiarito che bisogna mantenere distinte le spese necessarie alla manutenzione ordinaria, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell'edificio o alla prestazione di servizi nell'interesse comune dalle spese relative a lavori che importino un'innovazione o che comunque determinino, per la loro particolarità e consistenza, un onere rilevante, superiore a quello inerente l'ordinaria manutenzione dello stesso edificio: per la prima tipologia di spese, l'obbligazione del condomino sorge non appena si compie l'intervento; al contrario, «per le opere di manutenzione straordinaria e per le innovazioni, le quali debbono essere preventivamente determinate dall'assemblea nella loro quantità e qualità e nell'importo degli oneri che ne conseguono, la delibera condominiale che dispone l'esecuzione degli interventi assume valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino». Ne consegue che, in caso di vendita di un immobile sito in uno stabile interessato da interventi di ristrutturazione sulle parti comuni deliberati prima della vendita ma eseguiti dopo il rogito, le relative spese resteranno a carico del venditore (Cass. civ., sez. II, 3 dicembre 2010 n. 24654).
La perdita della qualità di condomino dell'alienante Si rammenta che la legge di riforma della materia condominiale ha introdotto all'art. 63 disp. att. c.c. un nuovo comma 5, ai sensi del quale «Chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto». Si precisa in tal modo il momento a partire dal quale l'alienante si libera dall'obbligo di contribuzione alle spese condominiali, perdendo sostanzialmente lo status di condomino; con un ragionamento a contrario, la nuova disposizione chiarisce che, in caso di alienazione di un'unità immobiliare, l'acquirente acquista, a sua volta, lo stato di condomino soltanto dal momento in cui il trasferimento venga reso noto al condominio. In altri termini, il trasferimento di detto status in capo all'acquirente si verifica non immediatamente e per effetto della vicenda traslativa, ma unicamente come conseguenza della trasmissione all'amministratore della copia autentica dell'atto di trasferimento. Si tratta peraltro di una disposizione da porre in collegamento con il gruppo di norme riformate che disciplinano ora in modo preciso gli obblighi di informativa e di reperimento, aggiornamento e conservazione dei dati in capo all'amministratore: il riferimento è all'art. 1130, n. 6, c.c., il quale prevede che ogni variazione dei dati contenuti nel nuovo registro dell'anagrafe condominiale debba essere comunicata all'amministratore in forma scritta entro sessanta giorni dal suo verificarsi. Si rammenta, per inciso, che il nuovo art. 1130 c.c. obbliga l'amministratore a curare la tenuta di uno specifico registro dell'anagrafe condominiale contenente le generalità dei singoli proprietari e dei titolari di diritti reali e di diritti personali di godimento, comprensive del codice fiscale e della residenza o domicilio, i dati catastali di ciascuna unità immobiliare, nonché ogni dato relativo alle condizioni di sicurezza inerenti le parti comuni dell'immobile.
Obiettivo del nuovo comma 5 dell'art. 63 disp. att. c.c. sarebbe in sostanza quello di non gravare l'amministratore di condominio dell'attività e dei costi connessi all'individuazione dei dati necessari per la corretta tenuta del registro dell'anagrafe condominiale, inducendo l'alienante a collaborare fattivamente al rapido aggiornamento del registro dell'anagrafe condominiale.

Tribunale di Milano, 2 marzo 2015, n. 1240


martedì 21 aprile 2015

Per trasformare il sottotetto in vano abitabile è sempre necessaria la preventiva autorizzazione

Per trasformare il sottotetto in vano abitabile è sempre necessaria la preventiva autorizzazione

Vietato iniziare i lavori senza l'autorizzazione scritta degli organi competenti della regione.


Questione di spazio. In passato, i locali sottotetto, non destavano alcuna particolare attenzione essendo considerati, dal punto di vista civilistico, meri “locali di servizio” e, dal punto di vista urbanistico, come dei volumi tecnici. Di recente la situazione si è ribaltata e questa tipologia di immobili è finita sotto i riflettori. Il motivo è da ricercare nella possibilità di essere utilizzati a scopo abitativo. In buona sostanza, potrebbe esserci la possibilità di trasformare dei locali privi di valore economico in vere e proprie case di abitazione. A causa della crisi economica, sempre più italiani provano a riconvertire i loro immobili pur di trovare nuovi acquirenti o nuovi spazi da affittare. Così le vecchie soffitte vengono sfruttate con soppalchi e i sottotetti diventano spesso confortevoli mansarde. Tutte le Regioni disciplinano, anche se in maniera disomogenea, la materia relativa ai "recupero sottotetti".
Il problema dell'abitabilità. Il contenzioso, sia sul fronte condominiale, sia su quello urbanistico ed edilizio, sollevato dall'individuazione della proprietà del sottotetto è stato alimentato negli ultimi anni dalla grande penuria di alloggi, soprattutto nelle grandi città, problematica che ha indotto alla riscoperta e all'utilizzo di detti spazi. Di norma i sottotetti hanno un altezza massima inferiore ai 180 cm, il ché il rende no adatti a soddisfare esigenze abitative. Anzi, occorre tener presente che il D.M. sanità del 5 luglio 1975 prescrive che «l'altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in 2,70 m, riducibili a 2,40 m per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti e i ripostigli». A questo punto entrano in gioco i regolamenti comunali che, nella maggior parte dei casi, impediscono di sopraelevare gli edifici per raggiungere l'altezza di abitabilità. Ovviamente esistono sempre delle eccezioni.
La trasformazione del sottotetto. Il proprietario del sottotetto ha il diritto di trasformare tale bene da unità immobiliare non abitabile (per esempio soffitta o ripostiglio) ad unità abitativa, previa autorizzazione dell'Ente Pubblico competente, ove la legislazione regionale, in tema di urbanistica concorrente con quella statale, autorizzi una siffatta modificazione di destinazione d'uso. Molte regioni hanno legiferato in tema di trasformazioni dei sottotetti, e pertanto è sempre necessario verificare queste normative per accertare i limiti eventualmente posti al mutamento da uso non abitativo del sottotetto a uso abitativo. Nel caso di specie, analizzato dalla Corte di Cassazione, sez. Penale, con sentenza n. 1542 il 15 aprile 2015 la modifica della destinazione d'uso del locale sottotetto in vano abitabile, non solo non può essere considerata un intervento di manutenzione ordinaria, perché trattasi di un intervento di ristrutturazione edilizia, ma necessitaanche di una preventiva valutazione di sicurezza. Da ciò ne consegue che senza le necessarie autorizzazioni, rilasciate dagli organi competenti, i lavori di trasformazioni non possono essere avviati, anche perché il Collegio rileva, riprendendo quanto ormai consolidato nella giurisprudenza in legittimità, che «qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, violazione dell'art. 95, d.P.R. n. 380/2001».Per tali ragioni, la Corte. ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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Corte di Cassazione, sez. III Penale, 15 aprile 2015, n. 15429


Fonte : www.condominioweb.com 

I debiti contratti dal condominio. Condomini morosi: obblighi dell'amministratore, la solidarietà passiva e il principio di parziarietà.

I debiti contratti dal condominio. Condomini morosi: obblighi dell'amministratore, la solidarietà passiva e il principio di parziarietà.

Negli immobili in condominio le spese necessarieper la conservazione e per il godimento della cosa comune, al pari di quelle relative alla prestazione di servizi e alle innovazioni di interesse comune, sono a carico dei singoli condomini in misura proporzionale al valore delle rispettive proprietà.
Il principio generale enunciato dall'art. 1123 co. I c.c., può subire delle deroghe nel caso di diversa convenzione e, in virtù dei successivi II e III comma, nell'ipotesi di beni destinati a servire i condomini in misura diversa, nel qual caso le spese sono ripartite proporzionalmente sulla scorta del diverso uso (più o meno intenso) che ciascuno può farne; allorquando l'edificio in condominio abbia più strutture (scale, cortili, lastrici solari), opere o impianti destinati a servire solo parte del fabbricato, sicché le relative spese vanno imputate esclusivamente al gruppo di condomini che ne trae utilità. L'amministratore può spifferare al creditore del condominio il nominativo dei condomini morosi?
Ciò posto, la titolarità di un diritto reale sulla cosa comune, che si identifica nel diritto di proprietà ovvero la titolarità di un diritto di godimento, è il caso del diritto di uso, usufrutto e abitazione, fa sorgere in capo ai titolari degli anzidetti diritti l'obbligo di contribuzione alle spese.
Per completezza, prima di entrare nel merito dell'argomento trattato, si evidenzia come per cosa comune, o meglio, per usare l'espressione del legislatore “le parti comuni dell'edificio”, per le quali appunto nasce l'obbligo di contribuzione, risultano, se il contrario non emerge dal titolo: “1) tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche” (art. 1117 c.c.).
Anteriormente alla profonda riforma del condomino apprestata dalla L. 220/2012, entrata in vigore il 18.06.2013, e prima dell'oramai storica sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 9148/2008, generalmente, la giurisprudenza era portata a considerare l'obbligazione assunta dal condominio alla stessa stregua di una obbligazione solidale tout court, di talché il debito del condominio era ritenuto esigibile per intero nei confronti del singolo condomino, a prescindere dalla quota millesimale di sua pertinenza e dal fatto che lo stesso avesse già eventualmente provveduto a versarla.
In altri termini il creditore poteva soddisfarsi per intero sul patrimonio del singolo condomino, salvo il diritto di rivalsa di quest'ultimo nei confronti degli altri partecipanti al condominio.
Come accennato, con la sentenza 8 aprile 2008, n. 9148, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha definitivamente escluso la solidarietà fra i condomini per le obbligazioni assunte verso terzi, affermando l'importante principio per cui: “La solidarietà passiva, in linea di principio, esige la sussistenza non soltanto della pluralità dei debitori e della identica causa dell'obbligazione, ma altresì della indivisibilità della prestazione comune; in mancanza di quest'ultimo requisito e in difetto di una espressa disposizione di legge, la intrinseca parziarietà della obbligazione prevale.
Considerato che l'obbligazione ascritta a tutti i condomini, ancorché comune, è divisibile, trattandosi di somma di danaro, e che la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge, dal momento che l'art. 1123 c.c., interpretato secondo il significato letterale e secondo il sistema in cui si inserisce, non distingue il profilo esterno da quello interno; rilevato, infine, che - in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità - l'amministratore vincola i singoli nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, le obbligazioni e la susseguente responsabilità dei condomini sono governate dal criterio della parziarietà, secondo regole consimili a quelle dettate dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie”.
Quale conseguenza pratica di detto principio: “… il terzo creditore, conseguita in giudizio la condanna dell'amministratore quale rappresentante dei condomini, può procedere esecutivamente nei confronti di questi ultimi non per l'intera somma dovuta, bensì solo nei limiti della quota di ciascuno”.
Questo il quadro giuridico-normativo applicabile a tutte le obbligazioni sorte prima del 18 giugno 2013.
Al contrario, per le obbligazioni sorte successivamente, occorrerà fare riferimento alle nuove norme introdotte dalla L. 220/2012.
In questa sede, in considerazione dell'argomento trattato, quella che più ci interessa è la statuizione portata dall'art. 66 disp. att. c.c., per il quale: “Per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, l'amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, nonostante opposizione, ed è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi.
I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini.
In caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, l'amministratore può sospendere il condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato.
Chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente.
Chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto”.
Prima di entrare nel merito della nuova disposizione, occorre fare due fondamentali premesse: la prima di carattere generale, che riguarda anche il periodo antecedente a quello in osservazione; la seconda più specifica, con valenza limitata al periodo successivo al 18 giugno 2013.
1) Il principio di parziarietà delle obbligazioni in capo al condominio, ora come allora, non risulta principio applicabile in assoluto.
In realtà anche le Sezioni Unite, nella sentenza n. 9148/08, avevano già lasciato intravedere detta limitazione, laddove nella motivazione veniva specificato come solo in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà.
Pertanto, anche in materia condominiale, sussiste un obbligo solidale (residuale) nel caso di obbligazione espressamente ritenuta tale dalla legge sicché, in questi casi, il creditore potrà esigere l'intero importo dell'obbligazione nei confronti del singolo condomino.
Sono i casi di responsabilità disciplinati dall'art. 2055 c.c., per il quale: “ Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali”, ubicato nel libro IV, titolo IX, del Codice Civile, in materia di “Fatti Illeciti”.
Si pensi al fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto (art. 2043), oppure al risarcimento del danno cagionato dalle cose in custodia (art. 2051).
Ecco che allora, in siffatti casi, si consideri ad esempio il danno provocato da scale (parte comune dell'immobile) danneggiate o pericolanti, la cui custodia ovviamente spetta al condominio, l'obbligazione derivante, una volta accertato e quantificato il danno, risulta esigibile nei confronti anche del singolo condomino per l'intero, e ciò pure nella vigenza della nuova normativa.
Detto principio è stato di recente ribadito dalla Suprema Corte, chiamata a giudicare in merito ai danni provocati ad un magazzino posto al piano scantinato e ai locali adibiti a esercizio commerciale, da infiltrazioni di acqua e ristagni provenienti da beni condominiali.
In questa occasione è stato ricordato come “l'applicabilità dell'art. 2055 c.c. (che opera un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota) ai danni da cosa condominiale in custodia trova una prima conferma, innanzi tutto, in alcuni precedenti di questa Corte, come Cass. n. 6665/09, che ha ritenuto il condomino danneggiato quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell'art. 1227 c.c., comma 1); Cass. n. 4797/01, per l'ipotesi di danni da omessa manutenzione del terrazzo di copertura cagionati al condomino proprietario dell'unità immobiliare sottostante; Cass. n. 6405/90, secondo cui i singoli proprietari delle varie unità immobiliari comprese in un edificio condominiale, sono a norma dell'art. 1117 c.c. (salvo che risulti diversamente dal titolo) comproprietari delle parti comuni, tra Le quali il lastrico solare, assumendone la custodia con il correlativo obbligo di manutenzione, con la conseguenza, nel caso di danni a terzi per difetto di manutenzione del detto lastrico, della responsabilità solidale di tutti i condomini, a norma degli artt. 2051 e 2055 c.c.”.
Ciò posto, è stato stabilito il principio per cui: “Il custode non può essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. Se ne deve trarre, pertanto, che il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, 1 comma c.c., individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili” (Cass. civ, Sez. II, 29/01/2015, n. 1674).
2) La seconda considerazione che, questa volta, riguarda esclusivamente il periodo successivo all'entrata in vigore della riforma, è quella per cui – in linea teorica – non ci si dovrebbe più preoccupare della parziarietà dell'obbligazione, nei termini pratici del recupero materiale del credito da parte del terzo, proprio in virtù delle novità introdotte in materia condominiale.
Infatti, il novellato art. 1135 c.c., al numero 4, stabilisce come l'assemblea dei condomini provvede: “ alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, costituendo obbligatoriamente un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori; se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne prevede il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento, il fondo può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti”.
Ciò presuppone che i fondi necessari al pagamento dei creditori (ad esempio: fornitori; chi materialmente presta la propria opera per la realizzazione degli anzidetti lavori; ecc.), dovrebbero già essere accantonati per intero, o in virtù dello stato di avanzamento, prima dell'inizio dei lavori e, quindi, materialmente corrisposti nel momento dell'ultimazione degli stessi ovvero alla fine dei singoli stati di avanzamento, di talché difficilmente potrebbe residuare un debito a carico del condominio.
A ciò si aggiunga come il novellato art. 1129 c.c., al numero IX, dispone che: “ Salvo che sia stato espressamente dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell'articolo 63, primo comma, delle disposizioni per l'attuazione del presente codice”, pertanto, anche con decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo e senza alcuna necessità di autorizzazione da parte dell'assemblea.
Anche in questo caso appare plausibile ipotizzare che, prima che il terzo creditore “batta cassa”, l'amministratore, per mezzo dell'anzidetta procedura anche esecutiva, riesca a reperire le somme necessarie ad estinguere l'obbligazione contratta verso terzi, evitando l'azione giudiziaria di questi.
Pertanto, la nuova normativa ha approntato una serie di obblighi per l'amministratore - la cui violazione fonderebbe l'ipotesi della grave irregolarità e, contestualmente, legittimerebbe la revoca dello stesso da parte dell'autorità giudiziaria su ricorso di ciascun condominio, ex art. 1129 c.c. -, proprio al fine di arginare fenomeni di eccesivo indebitamento da parte del condominio e, pertanto, la presenza di un rilevante numero di creditori che inevitabilmente cercherebbero di soddisfarsi sul patrimonio dei singoli condomini.
Infine, altra novità di non poco conto è quella per cui, sempre in virtù del novellato art. 1129 c.c. (num. VII), dal 18 giugno 2013: “L'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica”, altra ipotesi che, in mancanza, legittimerebbe la revoca giudiziale dell'amministratore.
Con riferimento a quanto testé visto e, pertanto, all'esistenza di un conto corrente condominiale, il terzo creditore, a prescindere dalla parziarietà o meno dell'obbligazione, ben potrebbe sottoporre a pignoramento (presso terzi) le somme depositate su detto conto corrente, con notevole risparmio di tempo e denaro.
Ed infatti, se in fase di primo commento alla legge di riforma, si è sostenuto erroneamente che detto conto corrente non fosse pignorabile - essenzialmente sulla scorta della circostanza per la quale nello stesso molto probabilmente sarebbero confluite solo le somme versate dai condomini in regola con i pagamenti, e non certo quelle dei condomini morosi effettivi debitori del terzo e perché il nuovo art. 63 disp. att. c.c. impone ai creditori di escutere prima il condomino non in regola con i pagamenti -, la prima giurisprudenza formatisi sul punto ha inesorabilmente smentito detta tesi.
Tanto è vero che prima il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza del 15.05.2014, e poi quello di Milano, con ordinanza del 27.05.2014, hanno ritenuto che allorquando venga costituito un patrimonio (nella specie, un conto corrente) intestato formalmente all'ente di gestione, si realizzi una - seppur embrionale – autonomia patrimoniale derivante proprio dalle attività di gestione che, per ciò solo, determina la imputazione della titolarità di essi in capo esclusivamente al condominio. Dunque, dal momento che le somme esistenti su detto conto sono intestate formalmente all'ente di gestione, che ne può così disporre sulla base delle decisioni dell'organo assembleare, esse devono conseguentemente ritenersi sottratte alla disponibilità dei singoli condomini, con la conseguenza finale che si realizzi quella evidenziata coincidenza tra soggetto debitore e titolare del patrimonio aggredito che consente l'attivazione della procedura esecutiva.
In altre parole, alle somme presenti sul conto viene impresso un vincolo di destinazione che, al pari delle parti comuni dell'edificio, determina l'elisione del legame giuridico tra singoli condomini e il condominio.
Ed infatti, negare la pignorabilità del conto corrente condominiale avrebbe comportato delle illegittime differenze di trattamento in fattispecie sostanzialmente identiche: si pensi al caso del pignoramento delle retribuzioni o la pensione del debitore, espropriabili (generalmente) nella misura di un quinto, salvo non confluiscano in un conto corrente bancario nel qual caso, perdono la loro specifica connotazione, rientrando nel patrimonio dell'obbligato, e sono pignorabili per intero. Esattamente come ritenuto dai Tribunali di Reggio Emilia e Milano, con riguardo al conto corrente condominiale.
Ciò detto, ritornando al concetto di parziarietà dell'obbligazione contratta dal condominio e, pertanto, all'ipotesi di morosità dello stesso, abbiamo verificato come detta evenienza dovrebbe (il condizionale è d'obbligo) riscontrarsi in casi residuali, che sfuggano alle varie “garanzie” sopra tratteggiate (fondo per le opere straordinarie; obbligo di riscossione anche coattiva delle quote condominiali; pignorabilità del conto corrente condominiale) e che dovrebbero attenere essenzialmente alle spese cosiddette ordinarie, vale a dire quelle di manutenzione e conservazione delle parti comuni e alla prestazione di servizi comuni.
La formulazione del novellato art. 63 disp. att. c.c., purtroppo, non brilla per chiarezza, tanto che ha ingenerato qualche dubbio, addirittura si è adombrata l'ipotesi della re-introduzione della solidarietà nelle obbligazione condominiali.
Abbiamo già anticipato che detta disposizione consente all'amministratore di riscuotere le “quote condominiali” sulla scorta del piano di ripartizione approvato dall'assemblea, e di ottenere ingiunzione di pagamento, immediatamente esecutiva, senza alcuna autorizzazione della stessa.
Norma che letta in relazione all'art. 1129 c.c., sostanzialmente, obbliga l'amministratore ad agire anche esecutivamente, entro 180 giorni dalla chiusura dell'esercizio nel quale è maturato il credito (quota condominiale).
Il passaggio che ha creato le anzidette perplessità è quello di cui al II comma: “ I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini”.
Tuttavia, diciamo subito che in difetto di un espresso vincolo di solidarietà questo non si può affatto desumere né, appunto, dal tenore letterale della norma, ma neppure in via interpretativa, atteso che in ogni caso osterebbero i principi di diritto già cristallizzati nella sentenza della Cassazione 9148/08.
Escluso, pertanto, all'origine qualsivoglia intento solidaristico potremmo ritenere che l'anzidetta norma ha voluto apprestare una sorta di duplice “garanzia”, sia in favore del creditore, sia in favore del condomino in regola con i pagamenti.
Tanto è vero che la stessa dispone il divieto per il creditore di agire nei confronti dei condomini (“obbligati”) in regola con i pagamenti, se non dopo aver escusso il patrimonio degli effettivi debitori.
In altri termini, il condomino in regola con i pagamenti viene assimilato - in senso lato - ad un fideiussore (funzione di garanzia), ed infatti la norma in commento presenta dei caratteri di affinità con quella di cui all'art. 1944 c.c.: “Il fideiussore è obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito. Le parti però possono convenire che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell'escussione del debitore principale”.
Tuttavia, nel caso del fideiussore la norma, contrariamente a quello che avviene in materia condominiale, parla espressamente di “obbligato in solido” - questo ad avvalorare la tesi che laddove il legislatore ha voluto disporre un vincolo di solidarietà, lo ha esplicitamente manifestato - e il beneficio dell'escussione è solo eventuale, dovendo essere “convenuto”.
Nel nostro caso, invece, l'obbligazione non risulta solidale e l'escussione del patrimonio del condomino non moroso, diventa sussidiaria, eventuale e successiva a quella del patrimonio dell'effettivo debitore.
Inoltre, la funzione di “garanzia” prestata dal condomino in regola con i pagamenti, sulla scorta della giurisprudenza formatasi ante riforma, letta con riferimento all'art. 1123 c.c., per il quale le spese necessarie per la conservazione e il godimento delle parti comuni e per i servizi in condominio sono sostenute in misura proporzionale al valore della proprietà dei singoli condomini, ci porta a sostenere che detta garanzia è limitata al valore della quota (millesimi) di ogni condomino. (Più facile essere morosi dopo la riforma.)
Pertanto il novellato art. 63 disp. att. c.c. configura, per i condomini in regola con i pagamenti, una funzione di "garanzia secondaria parziale", operativa solo in caso di condomini morosi e con un patrimonio insufficiente ad onorare il proprio debito, ma sempre limitata al valore millesimale della rispettiva quota.
Fatte salve le eccezioni sopra viste in merito alle obbligazioni solidali ex lege - lo ricordiamo sono le ipotesi contemplate dall'art. 2055 c.c. - per cui la funzione di garanzia secondaria parziale del condomino in regola con i pagamenti, cede il passo alla solidarietà disposta dal precetto normativo specifico, rendendo il credito del terzo esigibile nei confronti anche del singolo condomino per l'intero.
Veniamo ora alle conseguenze rinvenienti dall'applicazione pratica della norma in commento.
Il creditore del condominio, una volta ottenuto il titolo per agire esecutivamente nei confronti dello stesso - si pensi ad esempio al decreto ingiuntivo ovvero alla sentenza di condanna -, notificato lo stesso, dovrà attendere che l'amministratore, convocata l'assemblea, ripartisca il debito tra tutti i condomini sulla scorta dei rispettivi millesimi di proprietà.
Conseguentemente l'amministratore, incamerate le somme, dovrà versarle in favore del creditore, per estinguere l'obbligazione contratta dal condominio.
Nel caso di condomino/i moroso, su richiesta del creditore insoddisfatto, l'amministratore dovrà necessariamente fornire i dati dello stesso (art. 63 disp. att. c.c. co. II).
Questo, come visto, è un vero e proprio “obbligo di legge” la cui violazione abilita il creditore ad agire giudizialmente per l'ottenimento dei dati richiesti, anche con la condanna alle spese di giudizio.
In questi casi, gli strumenti giudiziari che l'ordinamento mette a disposizione del creditore potranno individuarsi nel giudizio ordinario, nel ricorso ex art. 700 cpc (nei casi di estrema urgenza) ovvero nello speciale procedimento di cognizione sommaria regolato dagli artt. 702 bis e segg. cpc.
Una volta ottenuto il nominativo e i dati del condomino/i moroso, il creditore, deve notificare il titolo esecutivo e l'atto di precetto, notificazione che può essere anche contestuale.
Questo passaggio è essenziale per il corretto avvio dell'eventuale esecuzione forzata: ed invero, sulla scorta del principio per cui non è ravvisabile alcuna responsabilità solidale tra il condominio ed il condomino, su cui grava come visto una responsabilità solo parziale in relazione alla sua quota, anche nei rapporti esterni, è stato correttamente ritenuto che: “La notificazione del titolo esecutivo non è necessaria per il destinatario diretto del decreto monitorio nell'ipotesi prevista dall'art. 654, comma 2, c.p.c. Viceversa, siffatta notificazione deve essere effettuata allorché si intenda agire contro un soggetto, non indicato nell'ingiunzione, per la pretesa sua qualità di obbligato solidale.
Ed infatti, tale soggetto deve essere messo nelle condizioni di conoscere qual è il titolo ex art. 474 c.p.c., in virtù del quale viene minacciata in suo danno l'esecuzione, ma anche di potere adempiere l'obbligazione da esso risultante entro il termine previsto dall'art. 480 c.p.c.” (Cass. Civ., Sez. III, 30/01/2012, n. 1289. Da ultimo: Tribunale di Nocera Inferiore, 30/04/2014).
Pertanto, il titolo esecutivo giudiziale - sia esso un decreto ingiuntivo come nel caso sopra visto sottoposto al vaglio della Suprema Corte ovvero una sentenza di condanna - formatosi nei confronti dell'ente di gestione condominiale in persona dell'amministratore pro-tempore, per essere validamente azionato nei confronti del singolo condomino, deve essere necessariamente notificato al medesimo condomino contro il quale si intende agire.
L'omessa notifica del titolo esecutivo consentirebbe, al condomino esecutato, l'opposizione al precetto ovvero all'esecuzione o agli atti esecutivi (ex artt. 615 e segg. cpc) che risulterebbe, sulla scorta dei principi appena enunciati, assolutamente fondata.
Altrettanto corretta risulterebbe, quale logica conseguenza del principio di parziarietà, l'opposizione del condomino avverso l'intimazione di pagamento dell'intero credito, considerato che lo stesso - come più volte ripetuto - risponde esclusivamente nei limiti della quota millesimale di proprietà. In altri termini, l'importo del credito insoddisfatto, per essere correttamente esigibile, deve essere distribuito tra i condomini in regola con i pagamenti, in misura corrispondente ai millesimi di proprietà di ognuno.
Tuttavia, questa eventualità potrà avverarsi solo allorquando il creditore abbia esaurito infruttuosamente tutte le azioni esperibili nei confronti del condomino/i effettivo debitore (moroso), sotto pena, in mancanza, di giustificata opposizione da parte del condomino in regola con i pagamenti.
In altri termini, per poter legittimamente richiedere il pagamento (pro quota) al condomino in regola con i pagamenti, il creditore dovrà preventivamente intraprendere tutte le procedure, anche esecutive (mobiliari, immobiliari e presso terzi), in danno del condomino moroso nonché seguirle con la dovuta diligenza e buona fede.
Il creditore, quindi, dovrà dare la rigorosa prova di aver fatto tutto il possibile per soddisfare il proprio credito nei confronti del condomino moroso, prima di aggredire il patrimonio del condomino in regola con i pagamenti, in mancanza, lo stesso potrebbe proficuamente opporsi all'esecuzione nei suoi confronti.
Va da se che il condomino che ha assolto alla funzione di “garanzia”, con il pagamento (pro quota) del debito di pertinenza del condomino moroso, avrà azione di regresso nei confronti dello stesso per la restituzione di quanto pagato per suo conto.
Tuttavia, inutile nasconderlo, le possibilità di rientrare nel possesso delle somme versate, risultano – quanto meno nel breve periodo – francamente scarse.
Non fosse altro perché il patrimonio del condomino moroso evidentemente risulta insussistente/incapiente, altrimenti sarebbe stato preventivamente aggredito dal creditore in virtù del “beneficio di escussione” imposto dall'art. 63 disp. att. c.c.: “I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini”.
Infine un utile avvertimento per non incorrere nel plausibile rischio di pagare due volte.
Nel caso in cui non si sia ancora giunti all'intimazione di pagamento (notifica titolo e atto di precetto), vale a dire quando si versi ancora nella fase pre-esecutiva, il pagamento da parte dei condomini della quota di rispettiva pertinenza, andrà necessariamente effettuato nelle “mani” dell'amministratore dello stabile, giammai in favore del medesimo creditore.
Ed invero, premesso che Il condominio si pone, verso i terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei condomini, attinenti alle parti comuni, sicché l'amministratore è rappresentante necessario della collettività dei partecipanti, sia quale assuntore degli obblighi per la conservazione delle cose comuni, sia quale referente dei relativi pagamenti, logica conseguenza di ciò è che: “non è idoneo ad estinguere il debito "pro quota" il pagamento eseguito dal condomino direttamente a mani del creditore del condominio, se tale creditore non è munito di titolo esecutivo verso lo stesso singolo partecipante” (Cass. civ., Sez. VI, ordinanza 17/02/2014).
Di talché, il pagamento effettuato direttamente al creditore del condominio, sempre che il creditore medesimo non si sia a sua volta munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino, non libererà lo stesso dal debito pro quota (Nello stesso senso anche: Cass. civ. Sez. II, 29/01/2013, n. 2049).
Pertanto, in fase di ripartizione pro quota del debito, il pagamento dei singoli condomini, non obbligati personalmente, andrà sempre e comunque effettuato nelle mani dell'amministratore e non in quelle del creditore del condominio.
Avv. Paolo Accoti
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Tel. 0981 1987035 Fax 0981 1987038
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Fonte :www.condominioweb.com 

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