venerdì 28 dicembre 2018

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venerdì 18 maggio 2018




Regolarità Urbanistica
La legge attualmente in vigore, pena nullità dell’atto, non prevede la possibilità di vendere o acquistare immobili che non siano conformi dal punto di vista urbanistico.
La conformità urbanistica, verificata da un tecnico abilitato presso il Comune di riferimento, riguarda la corrispondenza tra lo stato di fatto dell’immobile in cui si trova e il titolo abilitativo con cui è stato realizzato o modificato depositato in Comune.
Titoli abitativi:
licenza edilizia (per gli edifici edificati tra il 17/10/1942 e il 30/01/1977 con la Legge n.1150 concessione edilizia (per gli edifici edificati tra il 30/01/1977 e il 30/06/2003 con la Legge n.10) permesso di costruire (per gli edifici edificati dopo il 30/06/2003 con il Testo Unico D.P.R. 380/01) altri titoli per interventi minori (DIA, CIA, CILA).
Anche i condoni in sanatoria sono titoli validi per determinare la regolarità urbanistica.
La regolarità urbanistica dell’immobile è dichiarata dal venditore sotto sua responsabilità penale e quindi il notaio si limita a certificare la dichiarazione del venditore.
Il notaio non ha la possibilità né gli strumenti per verificarla, appoggiandosi alla relazione di un tecnico abilitato.
Il notaio deve dare fede a quanto dichiarato ed è obbligato a inserire nell’atto gli estremi del titolo abilitativo. Fanno eccezione solo gli immobili edificati ante 1942 e quelli realizzati prima del 1° settembre 1967.
La prima legge urbanistica risale al 1942 e da quel momento fino al 1967, sono state rilasciate moltissime licenze edilizie.
Per quanto i notai non siano obbligati ad inserire nell’atto gli estremi del titolo abilitativo per gli immobili ante 1967, non significa che non possa sussistere un abuso edilizio. Pertanto, è necessario verificarne comunque la conformità urbanistica.
Il consiglio che possiamo dare noi professionisti è quello di affidarsi ad un tecnico abilitato Geometra o architetto che certifichi la conformità urbanistica e catastale di un immobile prima di qualsiasi impegno di compravendita.
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giovedì 19 aprile 2018

giovedì 15 febbraio 2018

Quanti animali è possibile tenere in un appartamento condominiale?


Quanti animali è possibile 

tenere in un appartamento 

condominiale?

Le nuove linee guida del Comune di Gaeta prevedono che il numero di animali, per unità abitativa, non superi i 5 esemplari.




La disciplina. Come sappiamo la legge di riforma 212/2012 ha fornito un'apertura verso quei condomini che vogliono tenere gli animali in appartamento. Difatti l'ultimo comma dell'art. 1138 c.c. prevede che "le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici". Da una prima lettura, la norma è alquanto chiara: rappresenta il pensiero del legislatore in un clima del concetto di animale "oggi" (valorizzazione dell'animale dal punto di vista del rapporto uomo/animale).
Animali in condominio. Prima della riforma, la giurisprudenza di legittimità aveva precisato cheil divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali, non potendo detti regolamenti importare limitazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini.
Sicché il divieto di tenere animali nelle abitazioni private costituisce una clausola di natura contrattuale del regolamento che pone una servitù reciproca tra i condomini (Cass. Civ. Sentenza 15 febbraio 2011 n. 3705).
Dopo la riforma, ci sono state alcune criticità in merito all'applicabilità della nuova norma in merito ai regolamenti già vigenti al momento della riforma; difatti, secondo alcuni autori, la norma non potrebbe applicarsi che per l'avvenire, in virtù del principio generale di irretroattività delle leggi di cui all'art. 11, comma 1, prel. c.c.
Da ciò conseguirebbe che il vecchio regolamento, contrattuale e trascritto, che prevedesse ad esempio il divieto alla detenzione di cani di grossa taglia, manterrebbe la propria efficacia.
L'interpretazione in esame è stata smentita dalla pronuncia del Tribunale di Cagliari (Ordinanza 22 luglio 2016).
Difatti a parere del giudicante, il legislatore approvando il nuovo testo dell'art. 1138 c.c., si è voluto adeguare all'evoluzione della coscienza sociale, riconoscendo l'esistenza del diritto alla tutela del rapporto uomo-animale, ne consegue, allora, che la nuova norma vada ad incidere anche sui regolamenti condominiali vigenti, determinando l'immediata caducazione delle clausole che vietano o limitano la detenzione degli animali domestici (si verificherebbe la c.d. nullità sopravvenuta, in base alla quale l'entrata in vigore della nuova normativa comporta la nullità delle clausole in contrasto con essa).
I problemi in condominio. Abbiamo visto come l'evoluzione del diritto ha valorizzato il rapporto uomo/animale. Tuttavia è opportuno ricordare che il proprietario deve sempre rispettare il proprio condominio.
A tal proposto si ricorda che il condomino sarà ritenuto responsabile qualora il proprio animale emetta rumori molesti intollerabili oppure odori sgradevoli (844 c.c.) in tal caso si potrà chiedere la cessazione della turbativa ricorrendo all'allontanamento dell'animale (art. 700 c.p.c.).
Nel caso di immissioni rumorose è possibile ipotizzare la sussistenza del reato di "disturbo del riposto delle persone" (art. 659 del c.p.) purché il disturbo sia arrecato ad un numero indeterminato di persone. In argomento la Cassazione ha evidenziato che il reato di cui all'articolo 659 del c.p.
è ravvisabile anche in relazione all'abbaiare dei cani, poiché la norma incriminatrice impone ai padroni degli animali di "impedirne lo strepito", senza che possa essere invocato, in senso contrario, un "istinto insopprimibile" ad abbaiare dell'animale per sostenere l'insussistenza del reato".
Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 659, comma 1, c.p., è necessario che i lamentati rumori abbiano attitudine a propagarsi ed a costituire quindi un disturbo per una potenziale pluralità di persone, ancorché non tutte siano state poi disturbate… è necessario tuttavia che i rumori siano obiettivamente idonei ad incidere negativamente sulla tranquillità di un numero indeterminato di persone (Corte di Cassazione Penale Sentenza 22 dicembre 2016, n. 54531).
Il numero di animali in condominio: il provvedimento del Comune di Gaeta. Attualmente non vi sono delle vere e proprie disposizioni legislative che regolamentano il numero di animali che è possibile detenere in un appartamento domestico.
Ovviamente, il proprietario prima di prendere un animale deve sempre tener conto delle peculiari esigenze etologiche specifiche.Difatti a carico del condomino ci sono una serie di obblighi come quello di curare, rispettare l'animale e di sottoporlo a periodiche visite veterinarie e di mantenere salubre l'ambiente in cui vive.
Premesso quanto innanzi esposto, appare del tutto singolare la vicenda del Comune di Gaeta.
Il caso divenuto "spinoso" riguardava due donne che, in un quartiere ad alta densità abitativa, detenevano oltre 50 felini in un giardino, circondato da alte reti. L'elevato numero dei felini (a causa anche della temperatura estiva avevano reso impossibile la vita degli altri condomini, costretti a combattere con i cattivi odori provenienti dal giardino sottostante.
A seguito di numerose lamentele, il consiglio comunale di Gaeta nella seduta del 28 settembre 2017 ha approvato una delibera con la quale ha modificato il proprio regolamento sulla tutela degli animali.
In pratica il consiglio ha abrogato il divieto di fissare un numero massimo di animali domestici detenibili in abitazioni ed ha fissato dei specifici paletti sul numero degli stessi.
Nel nuovo regolamento si legge che:
  • Le unità immobiliari dove vivono gli animali devono avere caratteristiche tali da garantire la salute e la salvaguardia degli stessi, nonché il rispetto delle persone e, pertanto, in linea con quanto già prescritto per le superficie abitabili dei nuclei familiari, ciascun animale domestico deve godere di uno spazio minimo pari ad otto metri quadrati.
  • Con particolare riferimento ai cani ed ai gatti custoditi in giardini condominiali o in giardini privati all'interno di un contesto condominiale o, comunque, in spazi da cui potrebbe derivare un pregiudizio ai condomini, si prescrive il numero massimo di cinque animali detenibili.
  • Sono fatte salve le competenze, per eventuali riduzioni di detto numero, degli Enti preposti alla tutela delle condizioni igienico sanitarie e di benessere delle persone e degli animali.
La delibera citata ha suscitato diverse criticità soprattutto da parte delle associazioni degli animali.
Difatti contro tale nuova disposizione era insorta l'associazione animalista che avviò una raccolta firme che in poco più di una settimana raccolse quasi 4mila sottoscrizioni, che però non ottennero l'effetto sperato.
Pertanto l'associazione propose il ricorso all'autorità competente affinché la delibera venisse annullata.
Dagli organi di stampa si è appreso che il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio sezione staccata di Latina ha rigettato il ricorso presentato dall'associazione A.D.A. (Associazione difesa degli animali) contro la modifica al nuovo regolamento per la tutela degli animali approvato all'unanimità nell'ultimo consiglio comunale con la seguente motivazione: "Considerato che non sussistono i presupposti per rilasciare l'invocata misura cautelare, tenuto conto della natura non dispositiva dell'atto generale gravato, il ricorso è stato rigettato".
Tale rigetto è stato un duro colpo per gli animalisti che speravano in un diverso verdetto. Non resta che attendere gli eventuali sviluppi della vicenda in merito alla limitazione di animali in condominio. Di certo una imposizione di restrizione della detenzioni di animali potrebbe addirittura avere l'effetto di aumentare il rischio di accumulo compulsivo in ambienti inadeguati.


Fonte http://www.condominioweb.com/animali-in-appartamento-condominiale.14529#ixzz57CVLW6ug
www.condominioweb.com 

lunedì 8 gennaio 2018

Kizoa Movie e Video Maker: Novara Sacro Cuore

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Kizoa Movie e Video Maker: Porta Mortara via Ortigara

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Kizoa Movie e Video Maker: Veveri Villetta a schiera

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Kizoa Movie e Video Maker: Sacro Cuore Via Tadini

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Kizoa Movie e Video Maker: Porta Mortara Vaia Montenero

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venerdì 29 settembre 2017

L'amministratore che sposta somme di denaro tra condomini risponde di appropriazione indebita.


L'amministratore che sposta 

somme di denaro tra condomini 

risponde di appropriazione

indebita.

Commette il delitto di appropriazione indebita l'Amministratore che si appropria del denaro ricevuto dai condòmini utilizzandolo per propri fini.




L'amministratore di condominio che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032,00.
Il reato di appropriazione indebita si consuma allorquando l'amministratore, che ha la disponibilità di denaro di proprietà altrui (condòmini) in virtù dell'incarico ottenuto, si comporta come se fosse il proprietario, con la volontà espressa o implicita di considerare lo stesso come proprio.
Nondimeno, il reato si configura anche quando l'amministratore, allo scopo di coprire perdite che si verificano in altri condomini dallo stesso gestiti, trasferisce fondi di proprietà di un condominio ad un altro.
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 31322, pubblicata in data 22 giugno 2017.
Tratto a giudizio un amministratore di condominio veniva ritenuto responsabile, sia in primo che in secondo grado, del reato previsto dall'art. 646 Cp (appropriazione indebita), alla pena ritenuta di giustizia.
Proposto ricorso in cassazione per violazione, tra l'altro, del combinato disposto degli artt. 8 Cpp e 646 Cp, nonché per vizio di motivazione, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili.
Per motivare l'anzidetta decisione la Corte di Cassazione mutua i principi di diritto espressi dalla sezioni civili in relazione alla figura dell'amministratore, ricordando come il rapporto che si instaura tra condòmini e amministratore è riconducibile al contratto di mandato a mente del quale, l'amministratore, si impegna a compiere uno o più atti giuridici nell'interesse dei condòmini amministrati.
In relazione a tale funzione gestoria e di rappresentanza, l'amministratore riceve somme di denaro, generalmente rinvenienti dal versamento delle quote condominiali di pertinenza di ciascun condominio in rapporto ai millesimi di proprietà, al fine di provvedere all'esecuzione di specifici pagamenti o da versare nella cassa condominiale per provvedere alle spese di gestione del fabbricato, in conformità ai bilanci approvati dall'assemblea.
Pertanto, <<nel primo caso l'amministratore deve provvedere a compiere il pagamento a cui è obbligato secondo le modalità e i termini convenuti, mentre nel secondo caso egli è tenuto a una generale destinazione dei fondi confluiti sul conto comune alle spese condominiali secondo le modalità stabilite dall' assemblea con obbligo di rendiconto e di restituzione alla scadenza di quanto ricevuto nell'esercizio del mandato, ai sensi dell' art. 1713 c.c.>>.
Ciò posto, sarà configurabile il reato di appropriazione indebitaallorquando si verificherà <<un'oggettiva interversione del possesso ogni qualvolta l'amministratore di condominio, anziché dare corso ai suoi obblighi, dia alle somme a lui rimesse dai condomini una destinazione del tutto incompatibile con il mandato ricevuto e coerente invece con sue finalità personali ("Commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante" Sez. 2, n. 23347 del 03/05/2016; nello stesso senso Sez. 2, n. 50156 del 25/11/2015)>>.
Ebbene, dall'istruttoria è emerso che la somma di euro 52.089 versata dai condòmini per il pagamento delle spese di teleriscaldamento era stata utilizzata e prelevata dall'amministratore per fini diversi e propri dello stesso, più precisamente, per esplicita ammissione dello stesso, <<allo scopo di coprire le perdite che si erano verificate in un altro condominio da lui gestito>>), così facendo il reato si è perfezionato nel momento in cui l'amministratore <<ha gestito in maniera infedele la somma ricevuta e se ne è appropriato, tramite un indebito prelevamento dal conto acceso a nome del condominio amministrato>>, al fine di trasferirla sul conto corrente di un altro condominio “in perdita”.
STUDIO LEGALE AVV. PAOLO ACCOTI
Via Amsterdam
87075 TREBISACCE (CS)
Tel. 0981 420088
Mobile 335 6630292
Mail avv.paolo.accoti@gmail.com
Web www.studiolegaleaccoti.it
 Sent. Sez. 2 Num. 31322 Anno 2017


Fonte http://www.condominioweb.com/amministratore-e-appropriazione-indebita.14167#ixzz4u5AWdhZ1
www.condominioweb.com 

Impianto elettrico e interventi con detrazioni fiscali


Impianto elettrico e interventi 

con detrazioni fiscali


Detrazioni fiscali per manutenzione impianti elettrici




Per gli interventi sull'impianto elettrico a servizio di un'abitazione si può usufruire delle detrazioni fiscali per ristrutturazioni edilizie?
Alla domanda, che spesso viene posta nel nostro forum, si può dare risposta positiva, condizionandola però alla natura degli interventi ed alle modalità di pagamento dell'impresa esecutrice.
Prima di entrare nel merito della vicenda delle detrazioni è bene ricordare che per gli impianti elettrici, la tipologia d'intervento è classifica guardando a due norme:
a) il decreto ministeriale n. 37 del 2008;
b) il d.p.r. n. 380/01.
Il primo concerne la classificazione degli interventi ai fini della individuazione del soggetto abilitato ad eseguirli, nonché delle procedure da seguire per effettuarli; il secondo riguarda la classificazione edilizia ai fini dell'eventuale titolo abilitativo necessario.
Ebbene, nell'ambito strettamente impiantisco, con la locuzione manutenzione ordinaria si fa riferimento agli interventi finalizzati a contenere il degrado normale d'uso, “nonché a far fronte ad eventi accidentali che comportano la necessità di primi interventi, che comunque non modificano la struttura dell'impianto su cui si interviene o la sua destinazione d'uso secondo le prescrizioni previste dalla normativa tecnica vigente e dal libretto di uso e manutenzione del costruttore” (art. 2 lett. d) d.m. n. 37/08). Il resto è manutenzione straordinaria
In ambito edilizio, la manutenzione ordinaria degli impianti elettrici (in generale di tutti gli impianti tecnologici) nelle opere necessarie ad integrare o mantenere in efficienza tali impianti (art. 2, primo comma, lett. a), d.p.r. n. 380/01).
Detrazioni fiscali per manutenzione impianti elettrici
Com'è noto a disciplinare la fruizione delle detrazioni fiscali per interventi manutentivi come quelli in esame è l'art. 16-bis del d.p.r. n. 917/86 (testo unico delle imposte sui redditi, così detto T.U.I.R.).
Tale norma specifica che sono detraibili le spese effettuate per manutenzione di immobili (e loro impianti), nella misura del 36% della somma spesa fino ad un massimo di € 48.000,00 per unità immobiliare.
Le leggi finanziarie di anno in anno stanno prorogando la misura eccezionale che ha portato l'aumento della percentuale detraibile al 50% della somma spesa e il monte spesa ad € 96.000,00. Le somme, dice l'articolo in esame, sono detraibili in dieci rate di pari importo.
Esempio: se entro il 31 dicembre 2017 (data della scadenza della misura nelle percentuali maggiorate) spendo € 10.000,00 per manutenzione straordinaria della mia abitazione, ne potrà detrarre € 5.000,00 in rate da € 500,00 in dieci anni.
La detrazione, è bene ricordarlo, è la sottrazione di una somma di denaro dall'imposta lorda.
L'art. 16-bis succitato indica quali interventi accedono al beneficio in esame e quali no. Per semplificare si può dire così:
a) per le unità immobiliari di proprietà esclusiva tutti gli interventi ad esclusione di quelli di manutenzione ordinaria;
b) per le parti comuni di un edificio in condominio, anche quelle di manutenzione ordinaria.
In seguito l'Agenzia delle Entrate ha specificato in relazione ai singoli aspetti posti alla sua attenzione come debbano essere considerati gli interventi ai fini delle detrazioni fiscali.
Per quanto riguarda gli impianti elettrici a servizio di unità immobiliari, sono considerati detraibili gli interventi di manutenzione straordinaria e più nello specifico, la sostituzione dell'impianto o integrazione per messa a norma.
Nulla dice la norma circa la sostituzione di parti d'impianto, che in effetti potrebbero rientrare nelle manutenzioni ordinarie quali interventi tesi a mantenere in efficienza quello già esistente. In casi dubbi è comunque possibile formulare interpello all'Agenzia delle entrate per avere una risposta precisa e vincolante per l'ente.
È bene ricordare che il pagamento delle somme soggette al beneficio della detrazioni fiscale deve essere effettuato a mezzo di specifico bonifico bancario o postale.


Fonte http://www.condominioweb.com/detrazioni-fiscali-per-rinnovo-impianto-elettrico.14176#ixzz4u59bEvQw
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Distanze tra fabbricati. In alcuni casi si può costruire a meno di 10 metri. Lo dice il Consiglio di Stato







Distanze tra fabbricati. In alcuni 

casi si può costruire a meno di 

10 metri. Lo dice il Consiglio di

Stato


Quando il limite della distanza tra costruzioni può essere derogato?   

            




Per stabilire se un intervento è soggetto al limite inderogabile di distanza di 10 metri non importa che sia qualificato come nuova costruzione, importa invece che preesistesse un immobile che si trova a distanza inferiore rispetto a quella prevista dall'art. 9 del DM 1444. “La previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti "per la prima volta", ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione” .Questo è il principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza depositata il 14 luglio 2017 n. 4337 in merito alle distanze legali tra gli edifici.
La questione. In primo grado, il TAR per la Puglia, sez. III della sede di Bari, aveva annullato il permesso di costruire rilasciato in favore di Tizio dal Comune.
Con il citato permesso di costruire veniva autorizzata la demolizione di un fabbricato esistente, adibito a deposito, e la ricostruzione di un immobile plurifamiliare per civili abitazioni, aventi pareti finestrate a distanza di soli tre metri dalla palazzina abitata dai ricorrenti (Caio e Sempronio) in I grado.
Invero, secondo il giudice amministrativo, il fabbricato nel quale abitano i ricorrenti (attuali appellati) e quello autorizzato con il permesso di costruire impugnato sono separati tra loro da una distanza di tre metri data da uno spazio", che, all'esito della verificazione disposta, risultava "adibito a viabilità pubblica, seppure pedonale e non veicolare".
Premesso ciò, Tizio ha proposto appello avverso la sentenza n. 1209 del 21 maggio 2008 evidenziando che nel caso di specie, lo spazio intercorrente tra i due fabbricati è adibito a viabilità pubblica, di modo che ricorre l'ipotesi derogatoria, in tema di distanze, prevista dall'art. 879, co. 2, c.c.; inoltre che si rende applicabile l'art. 32-bis delle NTA (norme tecniche di attuazione del comune), che "consente di derogare alle disposizioni dettate dal D.M. 1444/68 in tema di distacco dalla strada nel caso di allineamento prevalente (come nel caso di specie)"
Le distanze tra fabbricati (disciplina civilistica e urbanistica) Le distanze in edilizia sono disciplinate dagli artt. 873, 874, 875 e 877 del Codice Civile. L'art. 873 stabilisce che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.” Quindi:
  • Sono necessari 3 metri se i fabbricati non sono costruiti in aderenza sul confine. In tal caso devono rispettare l'inderogabile distanza di tre metri l'uno dall'altro.
  • Sono necessari i 5 metri quando, nel caso in cui un soggetto ha edificato per primo, l'altro che edifica successivamente deve rispettare la distanza.
    Quest'ultimo potrà, pertanto, decidere se costruire in aderenza o in appoggio, oppure arretrare fino a mantenere la distanza minima stabilita.
    La maggior parte degli strumenti urbanistici locali, inoltre, stabilisce che la distanza minima di un fabbricato dai confini di proprietà sia almeno di cinque metri.
  • Sono necessari i 10 metri in caso di distanze tra edifici antistanti aventi almeno una parete finestrata.
    A tal proposito l'art. 9 del D.M. 1444/1968 prescrive una distanza minima assoluta di 10 metri.
In particolare, la disposizione dell'art. 9 del D.M. 1444/1968 stabilisce quali sono "le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee"; distanze che possono essere derogate "nel caso di gruppi che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche", e che quindi, in linea di massima, sono inderogabili sia dai privati che dalla pubblica amministrazione.
Per orientamento giurisprudenziale consolidato, infatti, si ritiene, da un lato (rapporti tra privati), che "in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale a un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privatitali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di concessione edilizia, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici" (Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza del 23 aprile 2010 n. 9751).
Dall'altro lato (nei confronti della P.A.), che "In tema di distanze tra costruzioni, il principio secondo il quale la norma di cui all'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 n.1444 (che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti), imponendo limiti edilizi ai comuni nella formazione di strumenti urbanistici, non è immediatamente operante nei rapporti tra privati, va interpretato nel senso che l'adozione, da parte degli enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime ,ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9, divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata" (Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. del 13 aprile 2010 n.8767).
Dunque la norma del DM 1444 è stata con costanza ritenuta inderogabile dalla giurisprudenza, a garanzia di esigenze collettive di igiene e sicurezza e per tutelare il diritto di proprietà degli immobili con la disciplina delle distanze tra fabbricati stabilita dal Codice civile.
Il ragionamento del Consiglio di Stato. Nella vicenda in esame la sentenza impugnata ha proceduto all'annullamento del permesso di costruire rilasciato all'attuale appellante, previa disapplicazione dell'art. 32-bis delle NTA del Comune, in quanto (secondo il TAR) la possibilità da tale norma prevista di realizzare nuovi edifici a filo strada, ove esista un prevalente allineamento in tal senso, “costituisce una violazione dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968 (norma inderogabile) e delle distanze tra fabbricati ivi prescritte”.
Ebbene, in proposito, il Consiglio di Stato ha evidenziato che la disposizione contenuta nell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile (In tal senso Cons. Stato, sez.
IV, 23 giugno 2017 n. 3093 e 8 maggio 2017 n. 2086; 29 febbraio 2016 n. 856; Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2016 n. 23136).
Tuttavia, la citata disposizione contenuta nell'art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda i "nuovi edifici", intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi "costruiti per la prima volta" e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse (Cons. Stato, sez. IV, 4 agosto 2016 n. 3522).
D'altra parte, sottolineano i giudici del Consiglio di Stato che applicando il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente (come nel caso di specie), si otterrebbe che:
  • L'immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non "arretrando" rispetto all'allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio "effetto espropriativo" del D.M. n. 1444/1968);
  • L'immobile non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all'ultimo comma dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell'ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio plano volumetrico.
Con tale ragionamento, osservano i giudici amministrativi, il singolo arretramento imposto (per effetto di una non coerente applicazione dell'art. 9), produrrebbe un disallineamento con altri fabbricati preesistenti (con un evidente vulnus estetico) e la realizzazione di spazi chiusi, rientranze ed intercapedini essi stessi nocivi per le condizioni di salubrità, igiene, sicurezza e decoro, che invece l'art. 9 intende perseguire.
Pertanto, conformemente a quanto già affermato in giurisprudenza amministrativa “la previsione del limite inderogabile di distanza riguarda immobili o parti di essi costruiti (anche in sopra elevazione) "per la prima volta" (con riferimento al volume e alla sagoma preesistente), ma non può riguardare immobili che costituiscono il prodotto della demolizione di immobili preesistenti con successiva ricostruzione (in tal senso, Cons. giust. amm. Sicilia, 3 marzo 2017 n. 74).
Inoltre, quanto alla accertata utilizzazione pubblica della strada, i giudici amministrativi osservano che ciò rende applicabile quanto previsto dall'art. 879, comma secondo, cod. civ., in base al quale "alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze e le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle distanze, ma devono osservarsi le leggi e i regolamenti che le riguardano" e, dunque, quanto previsto dal più volte menzionato art. 32-bis NTA (norme tecniche di attuazione del comune) che estende l'applicazione del principio innanzi esposto alla distanza prescritta per le vedute dall'art. 907 c.c. (Cass. civ., sez.
II, 27 dicembre 2011 n. 28938; Cass., 24 giugno 2009 n. 14784 e Cass.5 marzo 2008 n. 6006).
In conclusione, alla luce di tutto quanto innanzi esposto, il Consiglio di Stato accoglie l'appello di Tizio e per l'effetto ordina che la presente sentenza venga eseguita dall'autorità amministrativa.


Fonte http://www.condominioweb.com/quando-il-limite-della-distanza-tra-costruzioni-puo-essere-derogato.14178#ixzz4u3msrYuL
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giovedì 7 settembre 2017

Novara Villa d'epoca di ampia metratura

Abuso edilizio


 Abuso edilizio

     Abuso edilizio, responsabilità e prescrizione.



Abuso edilizio

Qualsiasi intervento su una costruzione realizzata abusivamente, ancorché l'abuso non sia stato represso, costituisce ripresa dell'attività criminosa originaria integrante un nuovo reato identico a quello precedente e non attività irrilevante sotto il profilo penale.
In altre parole, allorché l'opera abusiva perisca in tutto o in parte o necessiti di attività manutentive comunque finalizzate al suo consolidamento, il proprietario (anche se diverso dall'autore dell'abuso) non acquista il diritto di ricostruirla o comunque di ristrutturarla o manutenerla senza alcun titolo abilitativo anche se originariamente l'abuso non sia stato represso, giacché anche gli interventi di manutenzione ordinaria presuppongono che l'edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente (in senso analogo, Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele, Rv. 232364)Cass. pen. 19 maggio 2016 n. 38495.
Il reato contravvenzionale di costruzione abusiva in assenza di permesso a costruire di cui all'art.44 Lett. B) DPR 2011/380 ha natura permanente tale che la prescrizione comincia a decorrere dalla cessazione della permanenza stessa ai sensi dell'art. 158 c.p., che si verifica o con la totale sospensione dei lavori - sia essa volontaria o dovuta a provvedimento autoritativo quale il sequestro, ovvero con il completamento dell'opera o, infine, con la sentenza di condanna in primo grado nel caso di prosecuzione dei lavori successivamente all'accertamento (Cass.pen.sez. VI nr. °9617/92).
La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (cfr. Cass. sez. 3, Sentenza n. 29974 del 06/05/2014 Cc. dep. 09/07/2014 Rv 260498 Massime precedenti Conformi: N. 38136 del 2001 Rv. 220351).Trib. Napoli 26 gennaio 2016, n. 1154
Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29).
Tale responsabilità (che costituisce a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44) non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, Caleprico, Rv. 248070).
A maggior ragione non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico (Sez. 3, n. 41480 del 24/09/2013, Zecca, Rv. 257690) proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest'ultima possa assumere al riguardo se, come nel caso di specie, l'opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all'ideazione del committenteCass. 21 gennaio 2016 n. 10106
Ai fini della configurabilità delle ipotesi di reato previste nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b e c non possono ritenersi realizzate in "assenza" di permesso di costruire le opere eseguite sulla base di un provvedimento abilitativo meramente illegittimo, ma non illecito o viziato da illegittimità macroscopica tale da potersi ritenere sostanzialmente mancante (Sez. 3, Sentenza n. 7423 del 18/12/2014, Rv. 263916);
con l'ulteriore precisazione, sviluppata in termini esemplificativi, che è ammesso il sindacato sull'atto amministrativo quando questo sia del tutto mancante dei requisiti di forma e di sostanza o inesistente, perché emesso da un organo assolutamente privo di potere, oppure frutto di attività criminosa da parte del soggetto pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha conseguito, mentre è escluso nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere, pure sussistente, di emettere il provvedimento (Sez. 4, Sentenza n. 38824 del 17/09/2008, Rv. 241064)Cass. pen. 17 dicembre 2015 n. 2598
Integra il reato di abuso edilizio la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata (Sez. 3, n. 42330 del 26/6/2014, Salanitro, Rv. 257290; Sez. 3, n. 21351 del 6/5/2010, Savino, Rv. 247628; Sez. 3, n. 40843 dell'11/10/2005, Daniele, Rv. 232363);
ciò in quanto, in urbanistica, il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio stesso appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n. 17083 del 7/4/2006, Miranda, Rv. 234193)Cass. pen. 8 aprile 2015 n. 20544
La superficie realizzata mediante la costruzione di un balcone non può qualificarsi pertinenza, essendo opera accessoria, soggetta al diverso regime concessorio, la quale congiunta intimamente con altra, costituisce parte costitutiva ed integrante del tutto.
Le opere accessorie, infatti, non sono suscettibili di separazione senza determinare frazionamenti fisici del tutto ovvero riportare alterazioni funzionali dell'immobile laddove, diversamente, le pertinenze possono anche fisicamente essere separate dalla cosa principale senza alterarne l'essenza fisica e funzionale. Trib. Napoli 16 febbraio 2015 n. 2465
In materia di permesso di costruire in sanatoria il rilascio di un permesso di costruire relativo ad un immobile già realizzato, ed in assenza del duplice accertamento di conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento sia al momento di presentazione della domanda, non comporta l'estinzione del reato urbanistico in quanto non diviene applicabile il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45, atteso che trattasi di un provvedimento giustificato dai principi generali attinenti al buon andamento ed all'economia dell'azione amministrativa nell'ipotesi di opere che benché non conformi alle norme urbanistico edilizie ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione al momento in cui vennero eseguite lo sono divenute successivamente per effetto di normative o disposizioni pianificatorie sopravvenute, ma diverso da quello disciplinato dal citato D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 (così questa sez. 3^, n. 40969 del 27.10.2005, Olimpio, rv. 232371, occasione in cui la Corte ha ulteriormente precisato come l'avvenuto rilascio del permesso di costruire produrrà i propri effetti in tema di emissione dell'ordine di demolizione, rendendolo superfluo o revocabile e, più recentemente, sez. 3^, n. 6097 del 12.12.2013 dep. il 13.2.2014, Buelli ed altri non massim.)Cass. pen. 15 gennaio 2015 n. 7405
La copertura del lastrico solare con un tetto a falde non è autorizzabile, ma richiede il preventivo rilascio di concessione edilizia, in quanto comporta la realizzazione di un aumento di volume quindi, entro questi limiti, di una sopraelevazione. Cass. pen. 11 gennaio 2012 n. 27262
L'attività di trasformazione di un balcone in veranda rappresenta un intervento di nuova costruzione ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e), in quanto tali lavori ampliano il fabbricato al di fuori della sagoma preesistente" (sez. 3, 28 ottobre 2004, D'Aurelio, Rv. 230419) con la conseguenza che la sua realizzazione in assenza di concessione edilizia integra (se non ricorre anche, come nella specie, la violazione paesaggistica) il reato di cui all'art. 44, lett. b) D.P.R. citatoCass. pen. 18 maggio 2011 n. 28927
Mentre il pergolato, costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta quindi l'abitabilità dell'immobile.
Per la realizzazione di una tettoia di non modeste dimensioni, secondo l'orientamento di questa corte, occorre il permesso di costruire (Cass. 40843 del 2005; 4056 del 1997, 5331 del 1992). Cass. pen. 16 aprile 2008 n. 19973.


Fonte http://www.condominioweb.com/abuso-edilizio.13733#ixzz4s01ZWwVl
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